Associazione

Circolo della Cultura del Bello

Sacile

Alberto Quintavalle

Alberto Quintavalle è nato a Mansuè nel 1951. Ha frequentato le medie e il ginnasio a Vicenza e Zelarino presso i Missionari Saveriani dove ha acquisito la passione per la lettura.

Dal 1973 imprenditore in una attività di costruzioni meccaniche, sposato, padre e nonno. Dal 1975 ha abitato a Villanova di Prata, attivo prima nella vita politica e poi nel volontariato.

Nel 2011 si iscrive all’Università della Terza Età di Sacile, frequentando inizialmente il laboratorio di fotografia e attualmente il laboratorio di scrittura creativa. Dal 2019 vive a Sacile.


E’ nel mio sogno

un prato tutto verde solitario,

tra due spalle di monte,

e l’erba trema

al soffio dell’ombra.

Di là, nel sole, cantano,

ma il canto va lontano

e poi si perde.

Più solitario resta

e più silenzioso,

nel mio sogno,

quel prato tutto verde.


Vittoria Aganoor


Ho scelto questa delicata poesia di Vittoria Aganoor per aiutarmi a raccontare il fascino della distesa di prati conosciuti da sempre come “Prà dei Gai,” di cui la poetessa padovana, vissuta a Basalghelle dal 1884 al 1901, era profondamente innamorata.

Chi viaggia da Portobuffolè verso Mansuè sulla strada provinciale Pordenone-Oderzo, sopra l’argine, li può vedere a sinistra estendersi fino al fiume Livenza, attraversati a confine dei due paesi dal Rasego, un piccolo affluente della Livenza. Da piccolo passavo giornate intere nei “Prà dei Gai,” a volte per portare al pascolo oche e tacchini o per aiutare i miei genitori nella raccolta del fieno, altre volte per scampagnate con gli amici della contrada, per cacciare nidi di allodole o pescare nei fiumi.

A quei tempi, verso gli anni Sessanta, per i miei compaesani, quasi tutti contadini non ancora stressati dal progresso industriale, era naturale convivere con le bellezze offerte da queste svariate decine di chilometri quadrati di antica natura. Da anni ormai, per andare al lavoro la mattina, percorro la provinciale da Portobuffolè verso Mansuè e rimango sempre più attratto da quello che si può vedere guardando a sinistra lungo la strada sull’argine:paesaggio e colori mutano con il trascorrere delle ore, con il cambiamento delle condizioni atmosferiche e con il susseguirsi delle stagioni.  

In primavera, il sole quando sorge pigramente oltre le cime dei pioppi lungo la Livenza verso Ghirano, a volte colora di un rosso sempre diverso un rincorrersi di nubi che lo accompagnano nel nuovo giorno e allunga scure ombre sui prati, dove, più tardi, i fiori di tarassaco si aprono ai suoi raggi e variano la tonalità del giallo con il passare delle ore fino alla chiusura serale, mentre una confusione di cespugli, ricoperti da timidi fiori bianchi, separa il verde chiaro dell’erba nuova dal verde ocra delle prime foglie dei pioppi. Col trascorrere dei giorni, i fiori di tarassaco si trasformano in soffioni, donando ai prati un alone bianco e, dopo altri giorni, ritorna prepotente il giallo dei fiori di ginestrino.

In estate, al mattino presto, i campi di erba medica in fiore contrastano con un blu intenso i primi raggi di sole e più tardi, in lontananza, i toni si esaltano con il maturare del granoturco e della soia. Nell’aria si espande l’odore del fieno seccato al sole e il rumore dei trattori al lavoro spaventa e allontana le allodole dai nidi fra l’erba. Verso sera, col calar del sole, le grosse balle di fieno, allineate sui prati appena tagliati, sembrano giganti schierati.

In autunno arrivano le piogge, abbondanti, e prima il Rasego e poi la Livenza esondano, formando un bacino di acqua piatta, dove, col ritorno del sole, si specchiano gli alberi ormai pronti a lasciar cadere le foglie ingiallite e stanche della lunga stagione vissuta. Verso novembre, banchi di nebbia calano sui campi, lasciando scoperta la parte alta dei cespugli e degli alberi e ornano di mistero il paesaggio.

In inverno, quando il gelo avvolge la campagna, la brina ghiacciata crea splendidi cristalli sui rami spogli e con l’aiuto dei primi timidi raggi del sole si trasforma in grosse gocce d’acqua. A volte scende la neve che per giorni ricopre tutto di bianco e addormenta la vita nei prati.

Spesso ho visto la poiana abbandonare il palo del telefono per cacciare sulle sponde contorte del Rasego, le anatre selvatiche volare alte in formazione e poi scendere rasenti l’acqua esondata già occupata da centinaia di gabbiani e il gheppio, totalmente fermo in aria con piccoli battiti d’ali, volo detto dello “Spirito Santo,” mentre scruta tra l’erba alla ricerca di qualche preda. Ho visto i cani tenere sotto controllo greggi di pecore con agnelli e asini e altri cani accompagnare i cacciatori di lepri e fagiani, stormi di colombi lasciare la vicina torre di Portobuffolè per lanciarsi in voli acrobatici sui prati o per abbeverarsi con l’acqua della Livenza, e le allodole volare verso il sole con canti melodiosi.

Quando la sera torno verso Portobuffolè e il sole tramonta oltre Basalghelle, dalla parte opposta, in lontananza tra i pioppi al di là della Livenza, le sagome di alcuni silos di moderni mobilifici sembrano una minaccia per la campagna, ma, dalla stessa parte, si intravvede più alto il campanile di Ghirano, quasi a rassicurarci sul futuro di questo lembo di antica campagna veneta.

Marzo 2017  Alberto Quintavalle




IL DOLORE


Il dolore è come il peccato, spadroneggia nell’esistenza dell’uomo fin dal parto, poi lo accompagna negli anni con malattie, traumi, passioni, tradimenti, infelicità, rinunce, lontananza e perdita di persone care, fino alla morte liberatrice.  Ho condiviso con l’odore del dolore fin da piccolo, dolore da malattia che ha accompagnato mia mamma per anni in modo ambiguo e devastante.  Il suo soffrire puzzava di ospedale, dove trascorreva lunghi periodi di degenza e dove, per necessità, mi teneva con sé di giorno e di notte.  Sapeva di camera chiusa e semibuia della nostra vecchia casa dove la ricordo stesa a letto, sudata per la forte febbre e senza un lamento.  Rivedo le lacrime nei suoi occhi arrossati, quasi spenti, sconfitti da attacchi incalzanti di una malattia non ben diagnosticata.   Rivivo le lunghe corse notturne in bicicletta per accompagnare mia sorella, appena adolescente, da Fossabiuba (Mansuè), dove abitavamo, a Portobuffolè o Gorgo al Monticano da farmacisti compiacenti che ci vendevano le dosi di morfina che la mamma, con le ultime forze rimaste, si iniettava per rimettersi in piedi e badare a noi piccoli che, per aiutarla, a turno e con attenta responsabilità mettevamo a bollire la vecchia siringa nel solito pentolino di smalto scrostato. Il dolore, con il passare degli anni, abbandonava lentamente il corpo devastato e ormai anziano di mia mamma e si interessava con prepotenza al mio.  Nei primi sedici interventi chirurgici, subiti dal 1968 al 2006, ho deluso i suoi ripetuti assalti alle varie parti del mio corpo con una forte volontà, sostenuta dal calore familiare, con spavalda disinvoltura e con una fretta un po’ irresponsabile di tornare quanto prima al lavoro e alla normalità quotidiana.  Non era ancora il vero dolore, quello che si esalterà più tardi negli ultimi sette interventi di sostituzione protesi ginocchio e femore gamba destra, intervallati da lunghi mesi di immobilità a letto e da fastidiosi ricoveri settimanali in una clinica infettivologa.   Quel dolore che, dopo avermi invaso il corpo e la mente, mi lasciava in balia del delirio togliendomi l’energia per contrastarlo, non mi concedeva spazio per pensare a qualche bel ricordo da contrapporgli nell’attesa che passasse, mi faceva ansimare con bramosia per le dosi di analgesico, mi bloccava la gratitudine verso quelli che mi stavano assistendo e mi toglieva il conforto di pregare.  Ho rimosso dalla mia mente il peso di quelle logoranti tribolazioni, ma non mi riesce abbandonare all’oblio il ricordo delle persone sofferenti conosciute in quei reparti, la fredda attesa nelle sale operatorie, il numero infinito di aghi che, a fatica e dopo vari tentativi, finalmente trovavano nel mio braccio la vena in cui iniettare odiosi flaconi di antibiotici.                                                                

Nelle mie lunghe degenze nelle varie cliniche, attraverso la veduta concessa dalle finestre delle camerate, cercavo di convivere i momenti di vita nel mondo esterno. Spesso, con il ricordo, mi sembra di passeggiare in quel grigio e umido parco, adiacente a una delle cliniche milanesi, dove i raggi del sole non arrivavano mai a riscaldare i pochi anziani pensionati seduti, spenti e avviliti, sulle sporche panchine.   Non posso dimenticare le candide e abbondanti nevicate che si incaricavano di abbellire ancora di più i pendii delle montagne che circondano Cortina.  I grossi fiocchi, scendendo a volte dolcemente e a volte con turbolenza, mi aiutavano a superare le lunghe ore di dolorosa insonnia notturna avvolta nel silenzio, disturbato spesso dai gemiti di pazienti dimenticati al proprio tormento. Mi sono illuso di averlo distanziato, di averlo sconfitto almeno nelle fasi più acute, ma il dolore non ha voluto concedermi tregua, riconfermandosi padrone dei miei organi, delle mie ossa, dei miei muscoli, della mia pelle e, per ripicca, insinuandosi anche nella mia testa in modo più cruento di sempre.   In questi anni, che mi accompagnano verso la vecchiaia, devo prepararmi a convivere sempre di più con il dolore e spero solo di mantenere il controllo della mente, per ricordare e gustare ancora i tanti momenti felici della mia vita, la presenza riconoscente e amorevole dei familiari, la stupenda natura che mi circonda, non scordando mai che tante persone soffrono e hanno sofferto molto più di me.


Dicembre 2014                                     

Alberto Quintavalle



Pubblicazioni


2017


- Pra' dei Gai, primavera di ricordi

Edit. Publimedia

L’ANGOLO LETTERARIO DEI SOCI

Racconti e poesie

Alberto Quintavalle


I PRA’ DEI GAI