Associazione

Circolo della Cultura del Bello

Sacile

Lucia Accerboni

Riconoscimenti e premi


- 2013 -  Premio Letterario Nazionale Anla di Bergamo

- 2011 -  Premio Mondadori narrativa femminile, Segrate (Mi)

- 2011 -  Premio "Nadal Furlan"

- 2007 -  Premio poesia dialettale, Trieste.

Nata a Trieste (1942-2020), visse, dal 1966, a Sacile in provincia di Pordenone. Coniugata, con una figlia. Diplomata alla Scuola  per Traduttori e  Interpreti dell’Università degli Studi di Trieste, dopo una breve parentesi dedicata all’insegnamento ha lavorato per 38 anni presso le Industrie Zanussi di Pordenone, divenute in seguito Electrolux, nel settore tecnico, occupandosi di traduzioni nelle varie lingue delle istruzioni tecniche e dei manuali d’uso. Impegnata da lunghi anni nel volontariato, ricopre da 20 anni la carica di Presidente della sezione di Sacile dell’Associazione Donatori Organi Friuli Venezia Giulia e da 10 anni quella di Presidente provinciale della medesima associazione. Appassionata di musica, riveste da parecchi anni la funzione di segretaria nell’Associazione Amici della Musica “A. Romagnoli di Sacile. E’ stata premiata come socia benemerita all’interno dell’Associazione Nazionale Lavoratori Anziani (ANLA) di Pordenone  sia per la sua attività lavorativa che per  il suo impegno nel volontariato e ha ricevuto il diploma di benemerenza e la medaglia d’oro  dalla Camera di Commercio di Pordenone nell’ambito del Premio della fedeltà al lavoro, del progresso economico e del lavoro pordenonese nel mondo. Sempre per il suo impegno nel volontariato ha ricevuto nel 2011 il Premio “Nadal Furlan”.  Raggiunta la pensione, si è dedicata a una sua antica passione, la scrittura: premiata a Trieste nel 2007 per una poesia dialettale dedicata ai gatti, nel 2011 premio Mondadori per la narrativa femminile a Segrate (Milano), nel 2013 premio nazionale ANLA per la narrativa a Bergamo.

RITRATTO A LUME DI CANDELA


Giovanna aprì il portone e si ritrovò nell’atrio dello stabile; notò che la passatoia che portava fino all’ascensore era stata sostituita di recente e che il rosso brillante scelto non disturbava affatto il verde dei marmi alle pareti. La cassetta della posta era piena di pubblicità, che prelevò con insofferenza, visto che anche a casa sua non passava giorno che non arrivasse qualche avviso di offerte sconto. Decise di fare a piedi i due piani di scale che l’avrebbero portata al “suo” appartamento, come aveva precisato il notaio, all’atto della successione. (“Lei è figlia unica e quindi unica erede, non deve dividere niente con nessuno. Mi creda, è una fortuna, alle volte, ho visto liti e cause infinite tra eredi anche per patrimoni di scarsa consistenza”). Arrivata davanti alla porta, ebbe un attimo di esitazione; dall’altra parte non l’aspettava più nessuno. Non avrebbe sentito il ciabattare di sua madre, né la radio o la TV che suo padre teneva ad alto volume, vista l’inevitabile sordità dovuta alla vecchiaia ed il rifiuto ad usare l’apparecchio acustico. Due giri di chiave per la serratura di sopra e tre per quella di sotto e la porta si aprì con un po’ di difficoltà “Devo ricordarmi di oliare i cardini” si disse Giovanna. L’appartamento l’accolse con un caldo soffocante (quel mese di luglio era particolarmente torrido e afoso) e lei si affrettò subito a spalancare le porte finestre per far entrare l’aria. Nella camera dei suoi genitori i vestiti di sua madre erano ancora sulla spalliera della sedia, come se fosse appena rientrata da una passeggiata. Spalancò l’armadio: i vestiti di suo padre erano ancora lì, appesi, dopo 10 anni. “Una bella cernita e poi destinazione Caritas” pensò Giovanna. Ma il solo pensiero di fare quest’operazione le mise addosso una tale malinconia che decise di passare in soggiorno, la stanza più luminosa di tutta la casa. Alle pareti quadri ben noti: un sentiero in un parco, con cespugli di rose, a fianco delle peonie in piena fioritura (gli autori erano vecchi amici di suo padre; ricordava ancora i pomeriggi passati assieme a lui nell’atelier dei due pittori sulla collina di San Giusto da dove si poteva spaziare fino a Miramare), sulla parete di fronte una donna mollemente distesa su un letto, su un fianco, intenta alla lettura (quadro di fine ottocento eredità della nonna paterna), alcune stampe e… mancava qualcosa. Dov’era il quadro che lei tanto amava? Non si stancava mai di guardarlo, perché sua madre l’aveva tolto e dove lo aveva appeso? Spalancò la porta dello studio e lo vide: stava sulla parete attrezzata a libreria, accanto a una foto che la ritraeva adolescente, sul lago di Como, dov’era andata in gita con suo padre, negli anni cinquanta. Giovanna fissò il quadro per imprimersi bene in testa tutti i particolari, come se non lo conoscesse a memoria. Ogni volta che lo guardava scopriva nuovi dettagli; dipendeva dalla luce che vi batteva sopra e dall’angolatura dalla quale lo si guardava. Il pittore aveva fatto davvero un bel lavoro.


Giuliano saliva con passo veloce la stretta via dei Capitelli. Conosceva a memoria ogni pietra del selciato e le vecchie case che si affacciavano sulla via; ci era nato, in una di quelle, in via Crosada, nel rione di Cittavecchia. La strada era appena dietro alle rive, un leggero vento di bora portava odore di mare e il grido dei gabbiani  giungeva forte e intenso fino a lì. La luce del tramonto riusciva ad infilarsi a fatica in quel dedalo di viuzze, illuminando per un breve lasso di tempo le finestre delle case addossate l’una all’altra, quasi si tenessero su a vicenda. S’infilò in un portone buio, salì una breve rampa di scale e bussò a una porta che normalmente era sempre aperta. “Avanti”, gridò Gina “sono in camera”. L’appartamento constava di un’ampia cucina, piuttosto buia, visto che dava sul cortile interno, ma la camera godeva di due ampie finestre che davano sulla via e dalle quali, sporgendosi, si poteva vedere il mare. La camera di Gina fungeva da camera da letto e da atelier. Gina faceva la sarta, ma anche la pittrice, a tempo perso ed era davvero brava. Prima della guerra (la prima) aveva studiato alla Scuola di Belle Arti, la famiglia se lo poteva permettere, ma poi, alla fine del conflitto, il mondo in cui era vissuta e le certezze di cui si era nutrita erano crollate ed era stato giocoforza adattarsi. Di pittura non si campava, per cui il suo sostentamento proveniva dal lavoro di sarta. Il marito “navigava”, come si dice: per un breve periodo Giuliano e suo marito avevano navigato assieme, poi si erano imbarcati con due differenti compagnie di navigazione che facevano rotte diverse, ma l’amicizia non era mai venuta meno. Giuliano ed il marito di Gina, Vittorio, si erano conosciuti in guerra, 97° reggimento di fanteria dell’esercito austro-ungarico, di stanza prima in Boemia, poi in Galizia e infine sul fronte rumeno. Al ritorno a casa, spaesati, senza alcun punto di riferimento, avevano fatto tesoro degli studi nautici e deciso di girare un po’ il mondo, navigando. Vittorio non faceva scali frequenti nella sua città e comunque sempre per brevi periodi. Spesso Giuliano si chiedeva perché Gina non andasse ad abitare in un’altra zona, dove c’erano appartamenti più nuovi, dotati di ogni comodità e dove avrebbe potuto avere una stanza da adibire ad atelier di pittura, ma Gina rispondeva che voleva stare lì, perché suo marito, quando ritornava a casa, ci impiegava meno di 5 minuti dal molo di attracco al portone di casa e lei poteva già vedere la sagoma della nave quando entrava in rada. Giuliano era un vagabondo; dopo che era “sbarcato” ora faceva il meccanico in un’officina (aveva una passione per le automobili), ma già scalpitava per trovare un altro lavoro. Abitava con la madre, vedova, e tre sorelle, in una via ai piedi del colle di San Giusto, ma il più delle volte si faceva ospitare da amici, che non chiedevano di meglio, visto che teneva allegra la compagnia e sapeva accompagnarsi alla chitarra, senza peraltro disdegnare il pianoforte. Si dilettava anche di pittura, senza  aver però mai approfondito. Ogni tanto passava a salutare Gina, le chiedeva del marito, beveva un caffè e se andava verso altre mete, che includevano le numerose osterie dislocate nel rione, soprattutto quella ubicata all’inizio di via dei Capitelli, chiamata “Al pappagallo” dove si poteva giocare a carte e stare in compagnia. Tresette e coteccio erano i suoi giochi preferiti. Ma lì incontrava anche i due amici pittori che da San Giusto scendevano in Cittavecchia e assieme ai quali e ad altri compagni di bevute imbastivano veri e propri spettacolini, ad uso degli avventori. Gina stava finendo di orlare un abito, era in ritardo nella consegna e doveva affrettarsi. Giuliano le si sedette di fronte, parlarono del più e del meno, di conoscenti comuni, mentre le dita di Gina facevano scorrere velocemente l’ago nel sottopunto. Lei alzò un attimo gli occhi, ruppe il filo (l’orlo era terminato) e improvvisamente gli disse:”Voglio farti un ritratto.” “Perché?” chiese Giuliano. “Perché mi va” rispose lei “e poi te lo regalo”. Era da un po’ che ci pensava: Giuliano aveva folti capelli neri, ondulati, occhi di un grigio scuro (retaggio della nonna spagnola), mani affusolate, sempre ben curate, aveva un’eleganza innata nel vestire. Il fatto che una delle sorelle facesse la camiciaia e un’altra la pantalonaia lo aiutava molto nel guardaroba. “Vieni domani pomeriggio dopo le 6” disse Gina “per quell’ora avrò finito il mio lavoro di sarta e potrò dedicarmi a te”. A Giuliano parve una cosa strana presentarsi all’ora del tramonto; aveva sempre pensato che i pittori preferissero dipingere in ambienti ben illuminati, ma, a onor del vero, a vedere certi quadri con atmosfere cupe c’era da ricredersi. Decise che l’artista era lei e sua la decisione dell’ambiente di contorno. Arrivò puntuale a attese che lei finisse di applicare un colletto di pizzo, dopo di che spuntarono fuori cavalletto, pennelli e colori. La stanza era già lievemente in penombra, tra poco sarebbe stato necessario accendere un lume. Gina andò un attimo in cucina e ritornò con delle candele, che sistemò sapientemente, ordinando a Giuliano di mettersi in una posizione tale che il viso, leggermente inclinato, fosse appena sfiorato dalla tenue luce emanata e iniziò a dipingere. Il lavoro richiese parecchie sedute e i mozziconi di candela stavano lì a dimostrare l’impegno dell’artista. Il volto dell’uomo fissato sulla tela aveva un che di malinconico e di pensoso, che stupì perfino Giuliano. La pittrice aveva colto un sentimento dell’animo che lui cercava di camuffare sotto atteggiamenti spavaldi e burleschi, ma che, evidentemente, l’artista aveva saputo cogliere al di là della facciata, aiutata, forse, in questo, anche dal suo essere donna. Quando la tela fu terminata, Gina vi appose sul retro la propria firma e la data: 1930. Il quadro subì, negli anni a venire, numerosi traslochi al seguito del vagabondare del suo proprietario, finchè non approdò alla sua sede definitiva. L’amicizia con Gina ed il marito si interruppe bruscamente quindici anni dopo l’esecuzione del quadro, quando entrambi finirono inghiottiti nei campi di sterminio e di loro non rimase che fumo su per il camino.


Giovanna si riscosse: quel quadro, che suo padre amava tanto, l’avrebbe portato con sé, nella casa in cui viveva con suo marito, mentre avrebbe lasciato gli altri dov’erano, in modo che quando sarebbe ritornata a casa (sì, perché quella era comunque la sua casa) trovasse intatta l’atmosfera di un tempo, con tutte le cose al loro posto, com’erano sempre state, anche se non si poteva riavvolgere all’indietro il nastro della vita per salvare solo le cose belle e cancellare quelle brutte. Guardò ancora una volta il quadro, prima di avvolgerlo delicatamente in carta da giornale: chissà a cosa pensava suo padre mentre  veniva ritratto; ormai era troppo tardi per chiederglielo. Era troppo tardi per tutto; si pensa sempre di avere tanto tempo a disposizione e si rimandano chiarimenti e spiegazioni a dopo, mentre invece la vita scorre veloce e c’è sempre qualcosa di apparentemente più importante da fare, che ti impedisce di dedicarti di più a quelli che ti circondano. La cornice aveva bisogno di essere rimessa a nuovo, l’avrebbe portata da un suo amico corniciaio che aveva bottega in centro, nella cittadina in cui ora abitava, vicino al fiume, proprio dove la Livenza si divide in due rami. Finito il restauro, il corniciaio le chiese di poterlo tenere esposto per un po’, visto  che tutti quelli che entravano nel suo negozio finivano per essere catturati da quel ritratto e qualcuno aveva addirittura chiesto di acquistarlo. E così, per un paio di settimane, il quadro fece bella mostra di sé in vetrina e Giovanna vide che parecchie persone  vi si soffermavano, commentando i particolari e chiedendosi chi mai fosse l’uomo che vi era ritratto.  Dopo averlo portato a casa, si pose il problema di dove metterlo. Le pareti erano già ampiamente occupate: Giovanna voleva sistemarlo in un posto da dove fosse possibile vederlo da ogni parte della stanza. E lo trovò, in un angolo tra una finestra e la parete, anche se l’illuminazione non era ideale. Ma  non si trattava, dopotutto, di un ritratto a lume di candela?


©Lucia Accerboni



L’ORSO BALLERINO



L’uomo arrancava a fatica per la strada assolata, lievemente in salita, che portava al paese di Col (Zolla) trascinandosi dietro l’animale. Ai lati della strada i radi cespugli anelavano la pioggia e i bianchi massi di pietra che sembravano essere stati buttati lì, a casaccio, da mani ignote, spuntavano dall’erba già quasi gialla di quella tarda primavera del 1916. Giunto in cima alla salita, gli apparve il paese: un gruppo di case addossate le une alle altre, sulla destra il cimitero. In alto, sulla collina, il santuario-fortezza che dominava il paesaggio e le cui porte di accesso venivano chiuse al tramonto, come nei tempi andati quando bisognava difendersi dall’assalto dei turchi. L’uomo passò lentamente davanti alla scuola elementare, attirando l’attenzione della maestra e, di conseguenza, anche gli sguardi degli alunni, che lo conoscevano già e sapevano che  sarebbe arrivato prima dell’inizio delle vacanze e che lo aspettavano con ansia. Entrando in paese si fermò alla prima casa; ne uscì la padrona, che lo accolse con un saluto di benvenuto e lo invitò a sedersi, offrendogli un po’ di pane fatto in casa e della zuppa, scusandosi per il poco cibo, ma la guerra, si sa, era dura per tutti. Era un’abitudine che durava da anni, ormai; l’uomo era quasi di famiglia, in quel paese. Non si fermava mai sempre nella stessa casa, ma prediligeva questa perché aveva un bel cortile, spazioso, dove poteva fare il suo spettacolino con il suo animale, che era un orso bruno e si chiamava Marco. In attesa che i bambini uscissero da scuola e si precipitassero a vedere l’orso, si mise a chiacchierare con la padrona di casa chiedendo notizie dei familiari che erano al fronte, quasi tutti sul fronte orientale, ai confini dell’impero. Lei tirava avanti come poteva, aveva due bestie nella stalla, un maiale, alcune galline, un po’ di orto, portava il latte a vendere in città, ma l’inverno era stato duro e lungo. Non aveva notizie recenti del marito e dei due figli maggiori e sperava che non gli fosse successo nulla. Marija Mežnarjeva (non era il suo cognome, ma il soprannome: ogni famiglia in paese ne aveva uno, per distinguersi, visto che i cognomi si ripetevano) era una donna alta e magra, dal viso severo, con lunghi capelli biondi, lievemente striati di grigio, che portava raccolti in uno chignon. Parlava un dialetto sloveno in cui si mescolavano sia parole tedesche che italiane, tipico del territorio. Erano seduti, lei e l’uomo, ad una lunga tavola che si trovava nel cortile, sotto il pergolato di uva fragola da cui si poteva vedere quando i bambini sarebbero usciti da scuola. Il suono della campanella si udiva fino a lì e poco dopo i piccoli alunni si precipitarono fuori, ansiosi di tornare a casa a mangiare un pranzo alquanto frugale per poi ritornare nella casa dove era alloggiato l’uomo. Ivanka (aveva all’incirca 8 anni) entrò sbattendo il grande portone e salutò educatamente l’uomo, come le aveva insegnato sua madre. Ripose i libri di scuola e iniziò a mangiare velocemente la minestra di patate, per evitare che si freddasse,  non prima, però, di aver detto le preghiere. Bevve un po’ di latte e addentò con visibile soddisfazione un grappolo di ribes, che quell’anno era maturato in anticipo. Intanto scrutava l’orso che sembrava semi-addormentato e aspettava impaziente l’arrivo degli altri bambini, per dar modo all’uomo di iniziare lo spettacolo. Quell’uomo veniva dalla lontana Russia, diceva sua madre e la bambina si era fatta indicare sull’atlante, dalla maestra, dov’era quell’immenso paese. Il padrone dell’orso, uno zingaro (un mechkari, come venivano chiamati) proveniva molto probabilmente dai Balcani. Lo zingaro attese che tutti i bambini si fossero sistemati e iniziò a strattonare l’orso con il guinzaglio per farlo alzare in piedi, quindi  tolse il violino dalla sua logora custodia e iniziò a suonare dicendo all’animale: ”Balla, Marco, balla”. L’orso incominciò a ballare, ovvero a saltare nel sentire la musica. I bambini guardavano rapiti, senza immaginare quali crudeltà ci fossero dietro a quello spettacolo. Al termine dell’esibizione l’uomo prese congedo dalla padrona di casa; la strada fino al paese più vicino era piuttosto lunga e l’orso doveva anche nutrirsi, lungo la strada, di bacche, radici, funghi, quello che avrebbe trovato. L’uomo porse a Marija Mežnarjeva un lurido straccio di tela e lei vi mise dentro  alcune susine succose e alcune pere e un piccolissimo pezzetto di prosciutto affumicato. Anche l’orso ebbe qualcosa da mettere sotto i denti: alcune patate e un po’ di frutta. “Vi rivedrò, Ivan?” chiese lei. “Non credo” rispose l’uomo “ sono ormai vecchio e stanco e si sentono brutte voci in giro, Marija Mežnarjeva,  ed è tempo che io e il mio orso ci sistemiamo da qualche parte”. “Zbogom “ (addio) disse l’uomo e da quel saluto Marija capì che non sarebbe più ritornato. Prima di uscire dal paese l’uomo si fermò all’ultima casa, dove abitava Sonja,  la pià cara amica di Ivanka. La bambina corse dentro a cercare sua madre che se ne uscì consegnando all’uomo alcune provviste per il viaggio. I bambini, com’era consuetudine, lo accompagnarono  fino  all’uscita del paese, dove la strada bianca finiva ed iniziava un sentiero che attraversava un fitto bosco di pini per poi sbucare su una strada che costeggiava la ferrovia. Non avevano il permesso di spingersi oltre e ritornarono a casa mogi, consci che Marco non sarebbe più tornato da loro e che  il vecchio zingaro con il suo violino sarebbe stato relegato nei ricordi di un’infanzia che avrebbe segnato la fine del loro mondo e l’inizio di un altro foriero di altre tragedie.


©Lucia Accerboni




THE DANCING BEAR


The man trudged down the slightly uphill sunny road leading to the village of Col (Zolla) , dragging the animal along with him. Alongside the road, the thinning bushes were yearning for rain and the white rocks,  that seemed to have been thrown there, randomly, by unknown hands, sprang from the grass, which already turned almost yellow,  in that late spring of 1916. Having reached the top, he saw the village: a cluster of houses, built next to each other, on the left side of the cemetery. High up on the hill was the sanctuary-fortress, that dominated the landscape and the gates of which were closed at sunset, as in the old times when you had to defend yourself from the onslaught of the Turks. The man walked slowly in front of the elementary school, drawing the attention of the teacher  and, consequently, also the eyes of the pupils, who already knew him and knew that he would have arrived before the beginning of the summer holidays and were eagerly waiting for him. As he entered in the village, he stopped at the first house; the landlady came out,  welcomed him and invited him to sit down, offering him some homemade bread and soup. She apologized for having little food but, as one knows, war is hard for everyone. It was a habit that was going on for some years now, in that village the man was almost family. He never stopped at the same house, but he preferred this one because it had a lovely, spacious courtyard, where he could do his little show with his animal, which was a brown bear and its name was Marco.

While waiting for the children to come out of school and scurry  to see the bear, he chatted with the landlady asking for news of the family members who were at the front, almost all of them had been sent to the eastern front,  the borders of the empire. She got on the best she could, she had two cows in the stable, a pig, some chickens, a small vegetable garden, she sold the milk in the city , but winter had been rough and long. She didn’t have recent news from her husband and her two eldest sons and hoped that nothing had happened to them. Marija Mežnarjeva (it wasn’t her surname, but her nickname: every family in the village had one, to distinguish themselves, given that the surnames were commonly identical) was a tall and thin woman, had a stern face, long blonde hair, slightly streaked with grey ones, that she gathered in a chignon. She spoke in a Slovenian dialect, in which both German and Italian words intermingled, typical in that territory.  They were both seated at a long table, that was in the courtyard under the concord grape pergola and from there they could see when the children would come out from  school. The sound of the school bell could be heard up to there and shortly after, the small pupils rushed out, eager to go home to eat a rather frugal lunch and then return to the house where the man was staying. Ivanka (she was around 8 years old) came in, slamming the large door and courteously greeted the man, like her mother taught her to do.  She put away her school books and began to quickly eat the potato soup, so it wouldn’t get cold, but not before having said her prayers. She drank some milk and, with visible satisfaction,  bit into a bunch of currants, which that year had ripened earlier than usual. In the meantime she was observing the bear, which seemed to be half asleep, and was impatiently waiting for the arrival of the other children,  to give way to the man to start the show.  That man came all the way from Russia, her mother told her,  and the child had the teacher show her on the atlas, where that vast country was. The owner of the bear, a gypsy (a mechkari, as they were called) most probably came from the Balkans. The gypsy waited until all the children had settled down and began to pull the bear by its leash to make it get up on its feet, hence he took out his violin from its worn-out case and he began to play, saying to the  bear: “Dance, Marco, dance”. The bear began to dance;  or rather, to jump hearing the music . The children watched the bear, enchanted, without imagining what cruelties were behind that show. At the end of the performance the man bid farewell to the landlady; the road to the nearest village was quite long and, along the way,  the bear had also to feed itself on berries, roots, mushrooms, whatever it would find. The man handed a filthy piece of cloth to Marija Mežnarjeva and she put some juicy prunes, some pears and a very small piece of smoked ham in it. The bear also received something to eat: some potatoes and some fruit.

“Will I see you again, Ivan?”:  she asked. “I don’t think so”: the man answered. “I’m now old and tired and there are ugly rumors going around, Marija Mežnarjeva, and it’s time that my bear and myself settle down somewhere. .”Zbogom” (goodbye) the man said and from that farewell Marija understood that he would not return. Before leaving the village, the man stopped at the last house, where Sonja lived, Ivanka’s best friend. The child ran inside to find her mother, who went outside giving the man some food for the journey. The children,  as was the custom, accompanied him till the outskirts of the village, where the gravel road ended and a path began, that went through a thick pine forest and ended up on a road that skirted the railroad.

They were not allowed to go further on and so went back home, crestfallen, knowing the Marco would not return to them and that the old gypsy man with his violin would have been put away in the memories of a childhood that would mark the end of their world and the beginning of another herald to other tragedies.


©Lucia Accerboni





“Fra Livenza e Tagliamento: i luoghi di una Provincia fra storia e attualità”


SACILE, MON AMOUR



Andavo di fretta, come sempre, e passavo sul ponte dell’Ortazza, gettando uno sguardo sulla Livenza, povera d’acqua alla fine di un inverno particolarmente secco, con le cascate a fianco di Palazzo Ragazzoni che sembravano gorgogliare sommessamente e mi stupivo ancora, dopo quasi cinquant’anni di residenza nel Giardino della Serenissima, della bellezza di quello scorcio di fiume.


Ogni volta che attraverso i numerosi ponti di Sacile non manco mai di rivolgere uno sguardo al nastro d’acqua che la attraversa, le cui rive, a seconda delle stagioni, offrono colori vivaci in primavera ed estate, nei giardini che si affacciano sul fiume, con i salici che si specchiano languidi nell’acqua cristallina, per poi accendersi in autunno e scivolare dolcemente in colori più tenui in inverno. E che dire dei germani reali, i “masurin” che, sonnolenti, affollano le sue rive, per poi scivolare in acqua con grazia ed eleganza. Questo paesaggio fluviale, assieme alle campagne circostanti lo ritroviamo nelle delicate tele del pittore Luigi Nono, nato a Venezia, ma vissuto in gioventù a Sacile, negli acquerelli evanescenti di Alvise Missinato, capostipite di una famiglia di fotografi, che ha avuto nel nipote Marcello, prematuramente scomparso, un attento ed acuto osservatore del paesaggio liventino, da lui immortalato in numerosi scatti, di una  bellezza struggente. Per me, che provengo da una città di mare, l’acqua è un elemento indispensabile e quella di fiume, anche se molto diversa, più calma, a tratti quasi sonnolenta, mi riconcilia con la scelta fatta tanti anni fa di trasferirmi, per amore, in questo luogo “ ameno”, come Sacile veniva definita nel Cinquecento. E’ cambiata molto, in questi anni, Sacile. Cittadina sonnolenta negli anni sessanta (questa era l’impressione che ne avevo ricevuto la prima volta) si è trasformata, grazie soprattutto al recupero del suo centro storico, in un luogo che attrae persone dai centri limitrofi, che vi arrivano per fare shopping, come si usa dire adesso, per  una passeggiata, un caffè, un gelato, ma, anche, per gli avvenimenti artistici che vi si svolgono. Senza dimenticare il mercato del giovedì, appuntamento irrinunciabile per quanti desiderano “socializzare”. Per tutti gli anni in cui sono stata impegnata con il lavoro mi è stato praticamente impossibile frequentarlo, ma mi sono ampiamente rifatta dopo la mia entrata in pensione. Adoro fermarmi alle bancarelle, rovistare in quelle che offrono generi di abbigliamento, senza che per questo i titolari si infastidiscano, anzi, ti incoraggiano a farlo ed inizia così uno scambio di opinioni che va dalla merce esposta ai fatti del giorno, alle considerazioni sul tempo, alle informazioni prettamente familiari. Come si fa tra vecchi amici che hanno una lunga e consolidata frequentazione. Non deve piovere, il giovedì, altrimenti il mercato è triste, c’è poca gente in giro, vanno tutti di fretta e non si fermano a chiacchierare, solo un breve saluto e le bancarelle smontano prima dell’orario previsto. Nelle fredde giornate d’inverno i  banchi di piante e fiori rallegrano l’atmosfera e ti invogliano a portare a casa ciclamini rossi e bianchi, rigogliose stelle di Natale, piantine sempreverdi dalle bacche vermiglie. E quando vedi le prime mimose e le primule colorate, allora è quasi tempo di primavera.


Appassionata di storia, mi hanno sempre affascinato i palazzi che si affacciano sul fiume, memoria di un tempo prosperoso per i  commerci e non solo, che fecero di questa cittadina a cavallo fra Friuli e Veneto uno snodo importante. Quando arrivai a Sacile, nulla conoscevo della sua storia, ma non faticai molto ad impadronirmene, grazie ad alcune pubblicazioni che riuscii a scovare, alcune delle quali ormai introvabili. Gli “Annali” del Marchesini, poi, mi aprirono un mondo fino ad allora a me totalmente sconosciuto e furono per me più avvincenti di un romanzo. Subivo il fascino della venezianità di questo luogo, che si esprime anche nella parlata, che mi faceva venire in mente le commedie di Goldoni, con le ciàcole e i pettegolezzi che, scoprii quasi subito, soprattutto questi ultimi, essere particolarmente praticati a tutti i livelli. Proveniendo io da una città “multiculturale”, come si dice oggi, dove esistono sì le ciàcole, ma dove il pettegolezzo ha vita molto breve, mi stupivo di quanto la gente si interessasse dei fatti degli altri, soprattutto dei “foresti” e per quanto non dessi adito, così mi sembrava, a nessun tipo di interesse personale, facendo io una vita piuttosto defilata tra casa e lavoro, ciononostante tutti sapevano tutto di me. Confesso che all’inizio la cosa mi disturbava un po’, ma poi ci ho fatto l’abitudine e dopo tanti anni di cittadinanza, ebbene sì lo confesso, anch’io ho imparato ad indulgere nell’arte del pettegolezzo. All’epoca trovavo i sacilesi alquanto snob, o così mi sembrava, chiusi in una cerchia nella quale era difficile entrare, se non per i buoni uffici di sacilesi doc (quale era ed è in effetti mio marito) ed io, che per mia natura sono esuberante e di facile approccio, stentavo a capire questa mentalità, soprattutto nei confronti degli uomini, abituata, com’ero, a trattare alla pari. Mio marito sostiene che ho rivoluzionato le sue amicizie, che sono diventate, col tempo, quasi più mie che sue, alle quali ne ho aggiunte molte altre, essendo io, con gli anni, entrata a far parte di numerose associazioni, sempre a causa del mio entusiasmo per le cose nuove e qui a Sacile ho trovato terreno molto fertile. Alcune di queste associazioni hanno sedi prestigiose, in palazzi del quattrocento e del cinquecento, carichi di storia. Anche gli spazi espositivi e quelli nei quali si fa musica hanno visto avvenimenti storici importanti, sono state le dimore di famiglie illustri, testimonianza di un fasto che non era da meno di quello di Venezia. Negli ambienti ormai spogli, o meglio, spogliati di qualsiasi arredo, cerco di immaginare come doveva svolgersi la vita di un tempo e dietro le bifore e le trifore che si affacciano sulla Livenza sembra di veder scivolare ombre leggere, come di seta frusciante al lume delle candele. E mi sento una privilegiata nel camminare su pavimenti calpestati dalla Storia, di  salire affannose scale che hanno visto cavalieri e dame e servitori solerti, di ascoltare musica in saloni finemente affrescati o sotto la volta di chiese, luogo di preghiera di fedeli devoti e sosta rigeneratrice di pellegrini di passaggio. E il fiume scivola lento e  la sua nebbia leggera tutto avvolge in un’atmosfera magica che lascia appena intravedere i contorni delle case e i giardini che degradano dolcemente verso le rive. Ne rimase affascinato anche lo scrittore Fulvio Tomizza che qui ambientò un suo romanzo “Fughe incrociate” e che così descrive Sacile a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento:” Era davvero incantevole quella borgata, circondata dal Livenza che con un braccio l’attraversava, strisciando sotto i ponti della piazza e lambendo i muri dei palazzi come negli angoli più verdi di Venezia”. E, più recentemente, ecco come descrive Sacile Blake de Maria, professore di storia alla Santa Clara University in California, in un bellissimo libro edito l’anno scorso dal titolo “Becoming Venetian” (Diventare veneziani) non ancora tradotto in italiano, prendendo spunto dalla storia della famiglia Ragazzoni e del suo splendido palazzo in Sacile, famoso per i suoi affreschi: ”Il fiume Livenza serpeggia attraverso il centro di questa cittadina in un’atmosfera verdeggiante, lievemente sfocata, che evoca immediatamente i paesaggi pastorali di Giorgione e Tiziano. Questo è un luogo paradisiaco che merita appieno il titolo di Giardino della Serenissima.” Ecco, di nuovo e sempre Venezia, un binomio indissolubile, che spiega l’orgoglio dei sacilesi per la loro città sviluppatasi all’ombra del leone  marciano. Non è difficile immaginare le imbarcazioni che scendevano il fiume verso la laguna portando il prezioso legname del Cansiglio e lo risalivano cariche di merci; riesce un po’ più arduo individuare nell’attuale piazza il porto di attracco dei barconi. Quella piazza che d’agosto si riveste di verde fronzuto per ospitare gli uccelli della famosa sagra, che ininterrottamente dal 1274 rappresenta un appuntamento irrinunciabile per i sacilesi, ma non solo. E’ un rito che si ripete pressoché immutato nel tempo, eppure ancora così attuale anche in quest’epoca tecnologica dove sembra che il passato, anche recente, sia già obsoleto e che il presente non faccia in tempo a consolidarsi, perchè incalzato da un futuro che ha fretta di attualizzarsi. Se fossi un pittore, e mi dispiace di non essere versata per portare sulla tela le  mie emozioni, raffigurerei Sacile con questi colori: il verde delle acque della Livenza, l’avorio e l’ocra delle facciate dei suoi palazzi, il blu del cielo in alcuni  tersi pomeriggi invernali, il rosa delle albe primaverili quando le montagne schiariscono al primo sole e il rosso dei tanti gerani che adornano d’estate i balconi sul lungofiume. Ecco, Sacile, io ti vedo così, con l’occhio di una che non è di parte, perché nata altrove, ma che ha cercato, in tutti questi anni, di captare la tua atmosfera, di immergersi nella tua storia, di vivere la tua vita per farla diventare anche la sua,  sperando di poter essere annoverata, a pieno titolo, fra i sacilesi che lo sono per nascita. Perché,  a volte, chi è cittadino solo per residenza, si rivela più fortemente radicato al territorio proprio perché sradicato dal suo e quindi aspira a trovare una sua identità, che pur non dimenticando il luogo di origine, lo ancori a un punto fermo e lo faccia sentire parte integrante di un luogo, di una comunità, di un territorio.


©Lucia Accerboni




“Between the Livenza and the Tagliamento Rivers: places of a Province between history and the present”

SACILE, MON AMOUR


I was in a hurry, as usual, and I was crossing the Ortazza bridge, casting a glance at the Livenza River, that had very little water in its bed at the end of a particularly dry winter, with the waterfalls alongside Palazzo Ragazzoni, that seemed to be gurgling softly and I still marveled, after having lived in the Garden of Venice for almost fifty years, of the beauty of that view of the river. Each time I cross the many bridges of Sacile I always  glance at that ribbon of water flowing through the town, the banks of which, depending on  the seasons, offer  vibrant colours in Spring and in Summer.  In the gardens overlooking the river, weeping willows droopingly reflected in the crystal clear water, to then lighten up in autumn and slowly slip into softer colours in winter.  I watch the mallards, the “masurin” that, sleepily, crowd its banks, to then slide into the water with grace and elegance. This river landscape, together with the surrounding countryside, can be seen in the delicate paintings of the artist Luigi Nono, born in Venice, but who had lived in Sacile in his youth. In the evanescent watercolours of Alvise Missinato, founder of a family of photographers, whose nephew Marcello, who died prematurely, was a careful and acute observer of the Livenza landscape he immortalized its heartbreaking beauty in many shots. To me, coming from  Trieste,  a city of the sea, water is an essential element and that of the river, even if very different, calmer, almost drowsy at times, reconciles me with the choice made many years ago to move , for love, in this “pleasant spot”, as Sacile was defined in the sixteenth century . Sacile has changed a lot in these years. Drowsy city in the Sixties, (that was the first impression I had had), thanks to the recovery of the historical part of the town, it changed into a place that attracts people from the neighboring towns, who come here to go shopping, as we now say, for a walk, to drink a coffee, eat an ice-cream, but also to see the artistic events that take place. Not to mention the market on Thursdays, a key event for those who wish to “socialise”. During all those years that I’d  been busy working, it was practically impossible for me to go to the market, but ever since I retired I enthusiastically made up for  lost time. I love stopping at the various stalls, rummaging through those that have clothes, without annoying the stall holders, on the contrary, they  encourage you to do so and so begins an exchange of views ranging from the merchandise on display to the events of the days, to the weather conditions, to purely family information. How friends do, when they know each other for a very long time. It mustn’t rain on Thursdays, otherwise the market is gloomy, there aren’t many people around, everyone is in a hurry and no one stops to chat, just a quick hello and the stall holders dismantle the stalls before the scheduled time. During the cold winter days, the stalls with plants and flowers brighten up the atmosphere and entice you to bring home some red and white cyclamens, lush poinsettias, evergreen plants with crimson berries. And when you see the first mimosas and colourful primroses, well it’s almost springtime.

Being a history buff, I’ve always been fascinated by the buildings that overlook the river, memory of prosperous times for business but it’s not only this, that made this small town, between Friuli and Veneto, an important junction.  When I came to Sacile, I knew nothing of its history, but I didn’t have to struggle much to master it, thanks to some publications that I managed to track down, some of which are now nowhere to be found.  Later on, the “Annali” of Marchesini, opened up a world that was totally unknown to me until then and that were more exciting than a novel. I became fascinated with the Venetian style of this place, that also expresses itself in the way of speaking,  which immediately brought to my mind the comedies of Goldoni , with the chit-chat and the gossips that, I discovered almost immediately, most of all the latter, to be particularly prevailing on all levels.  Coming from a “multi-cultural” city, as we say today, where chit-chatting does exist, but gossip has a very short life, I was surprised by how much the people were so interested in the affairs of others; most of all of those of “strangers” and as much as I did not give rise to any kind of personal interest,  or at least it seemed so to me,  since I was living a rather hectic life between home and work,  yet despite this, everybody knew everything about me.  I admit that, at the beginning, this bothered me a bit, but then I got used to it and after many years of living in Sacile, well yes, I must admit, I also learned to indulge in the art of gossiping. At that time I thought the people of Sacile were quite snobbish, or at least it seemed so to me, closed within a circle in which it was difficult to enter, if not for the mediation of true “Sacilesi” (as my husband was and is) and I, who by nature, am exuberant and approachable,  I found it hard to understand this mentality, especially towards men, accustomed as I was to treat them as equals.  My husband claims that I’ve revolutionized his friendships, which have become, in time, almost more mine than his, as I, over the years, joined numerous associations, always due to my enthusiasm for new things and in Sacile I found very fertile ground. Some of these associations have prestigious headquarters, in buildings of the fifteenth and sixteenth century, steeped in history. Even the exhibition grounds and places in which music is played have witnessed important historical events; have been the homes of distinguished families, testimony of a magnificence that was no less than that of Venice. In the rooms that are now bare, or better, stripped of any furniture, I try to imagine how life in the past took place and behind the mullioned windows that overlook the Livenza River, soft shadows seem to slip,  like rustling silk, by the candlelight. And I feel privileged to walk on the floors trodden by history, to climb breathlessly stairs that have seen knights and dames and diligent servants, to listen to music in salons having fine frescoes or under the vault of churches, place of prayer for the faithfully devoted and for passing-by pilgrims to stop and rest. And the river slips slowly and its mist covers everything creating a magical atmosphere in which the outlines of the houses and of the gardens, which gently slope away towards its banks, can barely be seen. Even the writer Fulvio Tomizza was fascinated and here he fixed the setting for his novel  “Fughe Incrociate”  and which describes Sacile between the Sixteenth and Seventeenth Centuries:


“That small village was really enchanting, surrounded by the Livenza River that ran through it with its channel, flowing under the bridges of the square and brushing the walls of the buildings like the greenest corners in Venice”.


And, more recently, this is how Blake de Maria, History professor at the Santa Clara University in California describes Sacile, in a beautiful book published last year with the title “Becoming Venetian”, not yet translated into Italian, drawing inspiration from the history of the Ragazzoni family and from its magnificent palace, famous for its frescoes.


“The Livenza River winds its way through the center of this town in a lush atmosphere, slightly blurred, that immediately evokes the pastoral landscapes of Giorgione and Tiziano. This is a heavenly place, which fully deserves the title of the Garden of the Serenissima.”


Voilà, again and always Venice, an indissoluble binomial, that explains the pride of the inhabitants of Sacile for their city which developed in the shadow of St. Mark’s Lion. It’s not hard to imagine the vessels going down the river towards the lagoon carrying the precious wood from the Cansiglio forest and they went up it full of merchandise; it becomes a bit more difficult to try to locate in the present square the docking port of the barges. That square, which in August is dressed in leafy green to host the famous festival of the birds, which represents a fundamental appointment for the people of Sacile continuously since 1274, but not only? It’s a ritual that repeats itself almost immutable over the years and yet still so modern even in this technological era, in which it seems that the past, even the recent one, is already obsolete and that the present doesn’t have the time to consolidate itself, because chased by a future that is in a hurry to become actual. If I were a painter, and I’m sorry that I’m not cut out to bring my emotions onto the canvas, I would depict Sacile with these colours : the green of the water of the Livenza river, the ivory and the ochre of the facades of its buildings and palaces, the blue of the sky in some clear winter afternoons, the pink of the spring sunrises when the mountains lighten to the early morning sun and the red of the many geraniums that adorn the balconies on the riverside. So there, Sacile, this is how I see you, with the eyes of a person who is impartial, because born in another city, but that has tried, in all these years, to capture your atmosphere, to immerse herself into your history, to live your life to make it become hers too, hoping to be included, with full rights, among the “sacilesi” that are such by birth. Because, at times, those who are citizens just because of the residence, turn out to be more deeply rooted to the territory for the simple fact of having been uprooted from theirs and therefore try to find an identity of their own, that, while not forgetting their roots, anchors them in a fixed place and make them feel part of a place, a community, of a territory.

©Lucia Accerboni



**** O ****





UN CAPPOTTO COLOR CAMMELLO


Gli addetti comunali stavano smontando gli addobbi natalizi e già i negozi esibivano i cartelli dei saldi. Francesca guardava distrattamente le vetrine, non c’era niente di cui avesse veramente bisogno e d’altronde i prezzi non invogliavano certo all’acquisto. Troppo cari, anche per articoli in saldo. Passando da un negozio all’altro vedeva la sua immagine riflessa nel vetro: una signora di mezza età, le spalle leggermente ingobbite (Dio, quanto assomigliava a sua madre, in questo), il viso un po’ tirato, i folti capelli castani, ravvivati dalle sapienti cure del parrucchiere, nascosti da un cappello di foggia maschile, la figura appena ammorbidita sulla quale, tutto sommato, il tempo non aveva infierito troppo.


Francesca si era presa un giorno di ferie prima di rientrare al lavoro - mi ci vorrà un giorno solo per rispondere alle e-mail - pensò, prima di mettere ordine nelle pratiche. Aveva seguito i consigli degli psicologici, che abbondavano sulle riviste femminili, per rimettersi dallo “stress delle vacanze natalizie” e presentarsi così al lavoro in perfetta forma. Non che ci credesse, Francesca, a questi suggerimenti, ma aveva sentito il bisogno di prendersi un giorno solo per sè. Sollevò il bavero della pelliccia per ripararsi dall’aria umida, che riusciva ad intirizzirla anche se lei usciva di casa “scafandrata”, come diceva ironicamente suo marito. Francesca aveva sempre la sensazione di non essere coperta a sufficienza, d’altronde, a quel clima umido, lei non si era mai abituata totalmente. La giornata uggiosa non era la più adatta per andar per negozi, ma a Francesca la fine delle feste natalizie metteva sempre un po’ di malinconia. Disfatto l’albero, riposto il presepio, ricominciava la solita vita, il silenzio avrebbe ripreso possesso della sua casa. I figli e i nipoti si sarebbero limitati a visite diradate e suo marito, che quanto a conversazione non brillava di sicuro, si sarebbe scrupolosamente attenuto alle frasi indispensabili al vivere quotidiano. Francesca rispose al saluto di alcuni conoscenti e si soffermò sulla vetrina di un negozio per uomo, di recente apertura, nel quale suo marito, sul finire dell’estate precedente, aveva fatto alcuni acquisti importanti. Doveva riconoscere a suo marito un ottimo gusto nel vestire e quindi guardò con attenzione i capi esposti, nel caso ci fosse qualcosa che a Guido sarebbe potuto interessare. Del resto lui non badava a spese quando si trattava del suo guardaroba. Non era un rimprovero, Guido era generoso anche quando si trattava di acquisti per lei, era solo una constatazione, si disse Francesca. Il suo sguardo scivolò su pantaloni e giacche e fu attirato, inevitabilmente, da un cappotto color cammello. Non era mai riuscita, Francesca, a far comprare a suo marito un cappotto cammello. Non era il suo genere, diceva che il tessuto era troppo delicato, il colore troppo chiaro. Ma lei si ostinava, inutilmente. Il cappotto aveva un taglio impeccabile, sbottonato e leggermente aperto, sembrava tendere verso di lei. Francesca rimase lì, incollata alla vetrina e istintivamente chiuse gli occhi per un attimo, il tempo di vedere un cappotto cammello venire svolazzando verso di lei, correndo giù per la scalinata. L’aria era frizzante, il vento aveva avuto ragione delle nubi e Ugo le veniva incontro, il cappotto sbottonato, il sorriso sfrontato, che tanto piaceva alle sue compagne di liceo e che aveva stregato anche lei.


Francesca affondò le mani in quella stoffa morbida, dimenticando all’istante che lo aveva atteso a lungo, tutta intirizzita (quante volte aveva contato le navi in rada, seguito il volo dei gabbiani, che facevano ampi giri sul golfo prima di tuffarsi fra le onde, con uno stridio il cui eco giungeva fin lassù), ma Ugo era fatto così, sui suoi orari (e non solo su quelli) non si poteva contare. Lui adduceva i pretesti più inverosimili, il più delle volte era colpa di suo padre che lo aveva trattenuto in negozio. Anche per questo, diceva lui, non aveva mai tempo per fare i compiti. Sarebbe stata così gentile da passarglieli? Francesca non si sentiva sfruttata, per questo, lei lo amava e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Ma Ugo, l’amava? A modo suo. Si accontentava di poco, Francesca. Qualche uscita prima di cena, molto breve (sennò chi lo sentiva, suo padre), la passeggiata sul Corso durante la bella stagione, qualche cinema d’inverno (il teatro, no, a Ugo non piaceva e Francesca ci andava con le amiche) e al mare d’estate, assieme a tutta la compagnia. Si ritrovavano tutti alla fermata del tram, al mattino, e poi in spiaggia fino a sera, i bagnini dovevano buttarli fuori dallo stabilimento, se volevano chiudere. E poi gli anni all’università, Ugo un po’ spiazzato, perché avevano scelto facoltà diverse e Francesca non poteva più aiutarlo. E il tempo che lui passava al negozio, con suo padre, per impratichirsi e le sue assenze per le sfilate di moda, a scegliere i capi da acquistare . Ma le era fedele, Ugo? Francesca non voleva porsi il problema, anche se in cuor suo sperava di sì; lui tornava sempre da lei e solo questo contava. Lei lo conosceva bene, o almeno così credeva; sotto quella maschera da uomo vissuto Ugo nascondeva un carattere un po’ fragile (forse troppo succube del padre, pensava Francesca), a volte aveva bisogno di essere spronato, di credere in se stesso, nelle sue capacità (e ne aveva, bastava che le tirasse fuori). E con gli anni lui aveva abbandonato gli atteggiamenti un po’ sbruffoni, con lei era sempre gentile, scherzoso, delicato nelle sue effusioni, attento ai suoi bisogni. E poi quell’ultima volta, Ugo che saliva in macchina, il cappotto cammello sempre sbottonato, lei lo aveva abbracciato a lungo, risentiva ancora la stoffa morbida sotto le sue mani. “Ci vediamo tra un paio di giorni, poi possiamo andar a vedere quella casa che ti piace tanto”. - Colpa del nevischio - dissero poi i giornali - che aveva reso la strada viscida.


Il vento soffiava gelido su quel piccolo cimitero di campagna. Sembrava scendere rotolando giù dai monti vicini, sibilando fra le pietre. Francesca s’impose di non guardare la bara calare nella fossa, doveva pensare ad altro. Le venne in mente una poesia che aveva scritto al liceo:”Pietre traforate dal tempo, gemiti di vento fra i cespugli” e poi ... Francesca si sforzò di ricordare come continuava. L’importante era di tenere la mente occupata altrove, fino alla fine della cerimonia, la fine di tutto.


Francesca chiuse la valigia con uno scatto e posò i biglietti dell’aereo sulla borsetta. “Non ti piacerà” disse suo padre “troppo umido come clima. Non fa per te. E poi finirai con l’immalinconirti.” “Era un’occasione da non perdere” rispose Francesca “due anni a Bruxelles e poi si vedrà. Sarò in camera con Licia, siamo sempre state assieme, noi due, nelle nostre peregrinazioni, sappiamo come farci buona compagnia. E poi sarò in ufficio tutto il giorno, non avrò neanche il tempo di accorgermi del tempo che farà fuori.” E così fu: ufficio e pensionato, con Licia che cercava di agganciare gli altri stagisti e di organizzare qualche uscita tutti assieme. L’estate regalò delle giornate assolate, inusuali per quella latitudine e allora Francesca si dedicò a lunghe passeggiate dopo l’ufficio, concedendosi qualche cena in uno dei tanti ristoranti italiani che si trovavano nelle viuzze del centro, dove si poteva finalmente bere un buon caffè, cosa di cui Francesca


sentiva molto la mancanza. L’accompagnavano talvolta due colleghi francesi, ai quali Francesca non aveva mai permesso di oltrepassare la linea dell’amicizia. Le settimane ed i mesi scivolavano silenziosamente, ogni giorno prevedibile come quello che l’aveva preceduto, la porta dei ricordi tenuta ermeticamente chiusa. E poi quel giovane stagista italiano, educato, che Francesca incontrava continuamente nei corridoi, al caffè, in mensa, che veniva dalla sua stessa regione. “Gli piaci” diceva Licia “non essere scostante, cosa ti costa fare amicizia con lui?” Ma Francesca aveva dentro di sé un nucleo duro di dolore, che non era ancora pronto a sciogliersi. Guido era caparbio e sapeva aspettare, aveva imparato ad ascoltare, qualità rara in un uomo. Iniziò così; per Guido era stato amore a prima vista, ma per Francesca che cos’era? Una solitudine da riempire, paura di un avvenire fatto solo di ricordi o qualcosa di diverso? Francesca non sapeva leggere dentro di sé e quando Guido le disse che lui faceva sul serio, fu presa dal panico. Prese tempo. Guido sarebbe rientrato in Italia prima di lei ed avrebbe atteso la sua risposta. “Vengo a prenderti all’aeroporto” le disse il giorno prima del suo arrivo. “No” disse lei “vieni a prendermi in stazione”. Voleva avere più tempo per pensare. Due ore o poco più di aereo erano troppo poche, le quindici ore da passare in treno le sembravano un tempo sufficientemente lungo per mettere ordine nei suoi pensieri. Ma barava con se stessa, sapeva già la risposta, quello che non sapeva ancora era se era stato il cuore o la ragione a suggerirgliela. Francesca scese dal treno e s’incamminò verso l’uscita. Lo vide di spalle, all’edicola dei giornali; attese un attimo prima di chiamarlo. Quando Guido si voltò e le venne incontro, con una domanda muta sulle labbra, Francesca capì finalmente: la sua risposta veniva dal cuore.


Francesca si riscosse: una leggera nebbiolina era venuta calando poco a poco, ovattando l’atmosfera e smorzando l’alone giallognolo dei lampioni. Un passante frettoloso la urtò leggermente, scusandosi subito dopo. Lei guardò l’orologio – doveva affrettarsi - pensò – Guido sarebbe rientrato tra poco, lui odiava cenare in ritardo. Gettò un ultimo sguardo agli articoli esposti: no, non c’era niente di interessante in quella vetrina.


©Lucia Accerboni




A CAMEL-COLOURED COAT


The city workers were taking away the Christmas decorations and the sales posters were already displayed on the store windows.  Francesca was looking absentmindedly at the shop windows, there was nothing she really needed and on the other hand the prices were far off from being tempting to purchase something. Too expensive, even if the articles were on sale. Going from one shop to the other she saw her reflection in the shop window; a middle-aged lady, slightly curved shoulder s (God how she looked like her mother) with slightly drawn features, thick brown hair revived by the able work of the hairdresser, hidden by a man–shaped hat, a slightly softened figure, to which, all in all, time had not been so pitiless.


Francesca had taken a day’s holiday before going back to work – it’ll take me a whole day just to answer the e-mails – she thought, before putting the files in order. She had followed the advice of the psychologists, that were plentiful in women magazines, to recover from the “stress of the holiday season and go back to work in perfect shape.  Not that she, Francesca, believed in these tips, but she had felt the need to take a day off all to herself.  She turned up the collar of the fur coat to protect herself from the humidity that was able to stiffen her even if she left the house dressed as if she were wearing a “wet suit”, as her husband would ironically say. Francesca always had the feeling she wasn’t covered enough, on the other hand, she never did totally adapt to that humid climate. The gloomy day wasn’t the most suitable one for shopping, but for Francesca, the end of the holiday season always made her feel a bit depressed. Having taken away the Christmas tree decorations and put them and the Christmas crib away, the usual life resumed, silence would have taken hold again of her household.  Her children, nieces and nephews,   seldom visited and her husband, who was certainly not a brilliant conversationalist, spoke only about everyday life. Francesca waved back to some friends and acquaintances and she stopped a moment to look at a window of a men’s store that had recently opened, in which her husband had made some substantial purchases. She had to admit that her husband had a great taste in clothing and therefore she looked carefully at the items on display, in case there was something that could have been of interest to Guido.  On the other hand, he bared no expense when it came to his wardrobe. It wasn’t a reproach, Guido was also generous when it came to do shopping for her, it was just an observation,  Francesca told herself. Her gaze fell on some pants and jackets and was attracted to, inevitably, a camel-coloured coat. She never managed to persuade her husband to buy a camel-coloured coat.  The coat was not his style, he said that the cloth was too delicate, the colour was too light.  But she persisted, in vain. The coat had an impeccable cut, unbuttoned and slightly open, it seemed stretching towards her. Francesca stood there, glued to the shop window and she closed her eyes instinctively for a moment, long enough to see a camel-coloured coat coming towards her, running down a stairway. The air was crispy, the wind had had the best on the clouds and Ugo was coming towards her, the unbuttoned coat,  the cheeky grin, which her high school friends liked so much and that had bewitched her too.


Francesca sank her hands in that smooth cloth, instantly forgetting that she had waited so long for him, completely frozen (how many times had she counted the ships in the harbour, followed the flight of the seagulls, which flew in large circles around the gulf before diving into the waves, with a cry that reached all the way up to her), but Ugo was just like that, you couldn’t count on his punctuality (and not only  this). He would make up the most absurd excuses, most of the time it was his father’s fault, because he would’ve kept him in his shop.  For the same reason too, he said, he never had time to do his homework. Would she be so kind as to help him? Francesca didn’t feel used because of this, she loved him and she would’ve done anything for him. But did Ugo love her? In his way he did and Francesca was happy with this. Going out every  now  and then, very briefly,  before dinner (otherwise who would’ve put up with her father) , the walk along the Corso during the spring, going to the movies now and then during the winter (to the theatre , no, Ugo didn’t like going to the theatre, so Francesca went with her friends), to the beach in Summer, together with all their friends. They would all meet at the streetcar station, in the morning, and then they would go to the beach and stay there till evening and the lifeguards would have to throw them out of the swimming baths , if they wanted to close. Then there were the years at the University, Ugo was caught unprepared, because they had chosen different faculties and Francesca couldn’t help him anymore. And the time he spent at the shop, with his father, and his absences due to the fashion shows and to choose which clothes to buy. But was Ugo faithful to her? Francesca didn’t want to face this problem, even if deep inside she hoped so; he always came back to her and only this mattered. She knew him very well or at least she thought so; under that mask of an experienced man Ugo hid a slightly fragile character (maybe too dominated by his father, Francesca thought), sometimes he had to be pushed, to believe in himself, in his abilities (and he had them, he only had to pull them out). As the years went by, he had abandoned his slightly bragging attitudes, he was always kind to her, playful, laughing, his effusions were gentle,  he was attentive to her needs.  Then that last time, Ugo was getting in the car, the camel-coloured coat always unbuttoned, she had hugged him for a long time, she still felt the smooth cloth under her hands. “We’ll see each other in a couple of days; we can go and have a look at that house you like so much.” -  It was because of the sleet – the papers wrote – that the road had become slippery.


The wind was icy and blowing hard on that small country cemetery. It seemed as if it were rolling down from the mountains that were nearby, whistling among the stones. Francesca forced herself not to look at the coffin that was going down into the grave, she had to think about something else. She remembered a poem that she had written when she was in secondary school: “Stones drilled by the flow of time, the moaning of the wind in the bushes” and then…  Francesca tried to remember how it continued. The important thing was to keep her mind occupied somewhere else, until the ceremony ended, until it was all over.


Francesca closed the suitcase with a click and placed the airplane tickets on top of her purse. “You won’t like it” her father said “the climate is too damp. It doesn’t suit you.  And then you’ll end up feeling depressed.”  It was an opportunity not to miss” Francesca answered “two years in Brussels and then we’ll see. I’ll share the room with Licia, we’ve always been together, us two, in our travels, we get on well and she is good company.  I’ll be in the office the entire day; I won’t even have the time to notice how the weather will be.”  And so it was: office and boarding house, with Licia, who tried to hook up the other trainees and to organize some outings all together. Summer offered sunny days, unusual for that latitude and so Francesca dedicated herself to long walks after work, treating herself sometimes to dinner in one of the many Italian restaurants that were situated in the lanes of the town center, in which it was possible to finally drink a good coffee, something that Francesca truly missed a lot. Sometimes two French colleagues accompanied her, but she had never allowed it to go beyond the threshold of friendship. The weeks and the months silently slipped away, each day predictable just like the one that had gone by, the door of the memories kept tightly sealed.  And then that young Italian trainee well-mannered, that Francesca kept on meeting in the corridors, at the cafè, in the canteen, who came from her same region.  “He likes you” Licia would say, “don’t be so unsociable; what does it cost you to make friends with him?” But Francesca had a hard core of pain within her that was not ready yet to dissolve. Guido was stubborn and knew how to  wait, he had learned to listen, a quality that is rare in a man. It began like that: for Guido it was love at first sight, but what was it for Francesca? A loneliness to fill, the fear of a future made only of memories or something different?  Francesca was not able to read inside herself and when Guido said he was serious and meant it, she panicked. She stalled for time. Guido would have gone back to Italy before she did and would have waited for her answer. “I’ll come and pick you up at the airport” he told her the day before her arrival. “No” she said “come and pick me up at the train station”.  She wanted to have more time to think. A bit more than a two hours flight wasn’t enough, the fifteen hour train trip seemed sufficient time to her to straighten her thoughts. But she was just kidding herself, she already knew the answer, what she didn’t know was if it was her heart or head that had made the decision. Francesca got off the train and walked towards the exit. She saw him from behind, at the newsstand; she waited a moment before calling him. When Guido turned around and walked towards her, with a silent question on his lips, Francesca finally understood: her answer came from her heart.


Francesca shook herself: a light mist was slowly falling, muffing softly the atmosphere and dimming the yellowish light of the street lamps. A hasty passer-by bumped lightly into her, excusing himself immediately after. She looked at her watch – she had to hurry up – she thought – Guido would be home soon, he hated eating dinner late. She cast a last look at the clothes that were displayed: no, there wasn’t anything interesting in that shop’s window.

©Lucia Accerboni





TABBY


Una bicicleta che frena davanti al cancel

el campanel che sona, vae sul portel.

Un miagolio vien fora da ‘na cestina

meto una man so la to testina.


“I me l’à butà stamatina in tel cortivo,

no posso tégnerlo, gò un can cativo.”

“ So che ghe piaxe i gati” dixe la me vicina

gò pensà a ela par sta bestiolina.


“Basta gati in sta casa” dixe me marìo

“aven xa Piggy che ne fa un desìo.”

El miagolio a l’è talmente forte

che decido de paca de cambiar la to sorte.


Te ciapo in brasso, te caresso i pei driti

arriva Piggy, oddio semo friti.

Te meto par tera, te pianxe da mati,

ma Piggy te leca e ti te te cati.


Do cestine afiancae, un piato in comun

ste sempre insieme, fe tuto un fiorùn.

Ma ti te smiagola par bisogno de afeto

te cori de sora e te te mete sul leto.


Tra mi e ti faxen grandi ciacolae

co go finìo te digo. “Mi vae.”

E fasso finta de andar zo par la scala

te me varda stranìo: ”Ma cossa fala?”


Co no te ne vede par più de un zorno

te ne tien el muso co sen de ritorno.

E se te manca all’appello sera o matina

‘nden a sercarte fin in cantina.


Do cocole sul tapeo intant che prepare

te me core drìo gnanca fusse to mare.

Te se un de fameia a tuti i efeti

e noi te tratèn a wiskas e baxeti.



©Lucia Accerboni





Considerazioni sull’Ulisse di Joyce



Ho letto il libro di Joyce - con molta fatica, lo confesso - parecchi anni fa, perché, se uno non lo legge, non è sufficientemente “acculturato”, secondo i canoni. Magari la comprensione del testo non è così “immediata”, ma l’importante è affermare di averlo letto. Fa parte di quella serie di libri, tipo “On the road” di Kerouac, che non devono mancare in una biblioteca di una casa “che voglia dirsi colta”. Essendo triestina doc, non ho mai ignorato l’esistenza di Joyce, anche perché a suo tempo - negli anni ’50 - frequentai un corso di lingua inglese alla Berlitz School, dove Joyce stesso aveva insegnato e per arrivare all’abitazione di una mia zia bisognava salire su per la ripida scala Joyce, a lui intitolata perché lì accanto ci aveva abitato per alcuni anni. Se poi si passeggia per il centro di Trieste, lungo il Canale, ci si imbatte nella sua statua, rivolta proprio verso la facciata della Berlitz School Le implicazioni psicanalitiche nell’opera di Joyce sono ben evidenti. Conosciute le teorie di Freud a Trieste, Joyce perfezionò in seguito le sue conoscenze  approfondendo le teorie di Jung nel corso del suo soggiorno in Svizzera.  Trieste stessa, poi, si prestava in modo particolare ad assorbire le novità di questa nuova scienza. Città dalle due anime - nordica e mediterranea - trasferisce questa peculiarità anche nei suoi abitanti. A tratti malinconici, inclini alla depressione, nel più perfetto stile nordico, esplodono poi in un’allegria e festosità tipicamente mediterranee, ma sempre volti a vivere intensamente la propria vita. Joyce amava frequentare le bettole dove incontrava il volto popolare della città e lui stesso era un esempio di quel vivere tipicamente triestino che non si cura del domani e pensa piuttosto a dilapidare nel presente. Come  scriverà in seguito nell’Ulisse “la vita va affrontata e vissuta, mai criticata”. Il 16 giugno 1904, in una Dublino diventata Mediterraneo, si consuma l’odissea di Leopold Bloom, questo ebreo dublinese, con una moglie infedele, le cui peregrinazioni per le strade ed i bar di Dublino dalle 8 di mattina alle due di notte di un’unica giornata rappresentano la sua “odissea”. I primi e gli ultimi capitoli del libro furono scritti da Joyce a Trieste. Fu confortato nella sua scrittura da Italo Svevo che gli fornì anche alcuni dettagli sull’ebraismo inclusi nel testo. Leopold Bloom (Ulisse), sua moglie Molly (Penelope, ma anche la ninfa Calipso, la maga Circe, Nausicaa) e Stephen Dedalus  (Telemaco) incarnano l’avventura dell’uomo nel mondo, anche se ridimensionata nel tempo e nello spazio. Bloom nasce nella condizione di esule, Dedalus fa di tale condizione una scelta deliberata. Entrambi sono una proiezione di Joyce in due età diverse. Bloom incarna il modello sociale proposto dalla società dublinese dell’inizio del ‘900, un tipo posato, tranquillo, in un certo senso omologato, tutto il contrario di Joyce che era insofferente al piatto conformismo e ambiva a ben altre mete, Dublino stessa, presente in tutte le sue opere e da lui definita “la città della paralisi”, sarà amata e odiata al tempo stesso , ma mai abbandonata, nonostante gli oltre 35 anni di esilio volontario. Se l’è conservata dentro, come un’ossessione, anche se si rifugerà in un “altrove” non facilmente interpretabile, neanche dal più attento lettore.


E noi, cosa rimane a noi del mito di Ulisse? La voglia di evadere (il viaggio), di conoscere, di sfidare l’ignoto. Può rimanere solo un viaggio mentale, immaginario, psicologico, alla ricerca e conoscenza di noi stessi, per sfuggire anche dalla realtà che ci delude, immaginando un cammino che, forse, potrebbe  anche non approdare da nessuna parte. E’difficile spiegare a noi stessi chi siamo e perché la nostra vita ha preso quella direzione e non un’altra. Troveremo le risposte? Forse, alla fine del viaggio, se riusciremo ad approdare a Itaca.


©Lucia Accerboni




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