L’ANGOLO LETTERARIO DEGLI OSPITI

Racconti e poesie

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Circolo della Cultura del Bello
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- SPONDE -


di Laura Anna F. Trabuio



Scendeva un’aria fredda, un profumo di muschio e legno bagnato. Dense nuvole cinerine si erano raccolte intorno al Monte Cavallo, e un vento umido le spingeva verso la città, increspando le acque del fiume Livenza. Da sotto un ponte sbucarono quattro anatre bianche, passarono davanti alla bottega di mastro Zorzet, scivolando placide una accanto all’altra, e mentre il campanile batteva le cinque dentro la sfuggente cornice del crepuscolo, il profilo delle case si faceva più scuro e Sacile si preparava ad accogliere la sera.

Luciano Fornasier aprì le palpebre stanche, fece un lieve cenno con la mano, e la governante si avvicinò in punta di piedi, quasi temesse di spezzare quell’aura di silenzio che sembrava proteggere la casa dallo scorrere del tempo.

L’uomo indicò la finestra. «Per favore, Teresa, apra le tende» sussurrò.

Un sipario di lunghi drappi scivolò sul pavimento di marmo lucido, mostrando un’ampia vetrata di cristallo.

Pioveva. Una leggera pioggia primaverile iniziava a picchiettare sulla finestra.

L’uomo si girò su un fianco, a guardare il fiume. Per lo sforzo, il suo viso si contrasse in uno spasmo. Teresa si sedette sulla poltrona accanto al letto, in attesa del medico.


L’acqua verde-azzurra della Livenza scorreva tranquilla, la pioggia rinfrescava le fronde ricurve dei salici, che il vento vivace di marzo faceva ondeggiare oltre la sponda del fiume. Sull’altra riva c’era la bottega di mastro Zorzet, un angusto locale sotto la strada, la cui parete esterna si univa a un muretto che seguiva l’ansa del fiume fino a una piccola cascata.

In lontananza, un breve lampo attirò lo sguardo socchiuso dell’uomo.

«Nino sta saldando qualcosa» disse.

Sotto l’occhio esperto di mastro Zorzet, Nino imparava a saldare pentole di rame. Di tanto in tanto passavano le anatre, sembravano allo stesso tempo attratte e impaurite dalle scintille della fiamma ossidrica. Nino si fermava. Aspettava che si allontanassero. Intanto il suo sguardo costruiva un ponte di sogni che terminava sulla sponda opposta, dove un palazzo abbandonato l’aveva attratto fin dal giorno in cui si era presentato alla bottega come apprendista.

«Per oggi va bene così» gli disse Elio Zorzet.

Nino si tolse gli occhiali da saldatura, ripose le pentole e gli attrezzi sopra gli scaffali anneriti dal fumo, appese il grembiule di cuoio, e con le mani si scrollò un po’ di polvere dai folti capelli biondi.

Dalla bottega si usciva attraverso una breve galleria che sbucava sulla Calle dell’Oca, un vicolo disabitato dai tempi del dopoguerra, dove porte e finestre erano state murate con le macerie degli edifici bombardati. L’odore fresco del fiume arrivava fin lì, poi si stemperava nell’aria mescolandosi al profumo dei formaggi, dei salumi, e del miele e delle spezie, che proveniva dalle botteghe sotto i portici di Piazza del Popolo. 

Nino slegò la sua bicicletta, strinse il risvolto dei pantaloni con due mollette da bucato, poi salì gli scalini di pietra, arrivò sul ponte e lì si fermò, a contemplare l’edificio oltre il fiume.

Quando la pioggia aumentò il ritmo, si mise a pedalare più veloce verso la frazione di San Michele, dove abitava con la famiglia. A ogni pedalata, gli rimbalzava su un fianco un sacchetto di cuoio, legato a uno spago a tracolla, in cui metteva la paga settimanale.


Il signor Fornasier alzò debolmente la testa dal cuscino, guardò fuori dalla vetrata, sulla quale si era posato un fitto velo di goccioline. La porta della bottega era chiusa, e così pure i vetri piombati delle due finestrelle ad arco, ai lati dell’uscio.

«Nino se n’è andato» disse l’uomo.

Quando arrivò il dottor Gualtieri, Teresa scese al piano terra con l’ascensore interno, una cabina trasparente che scorreva fluida e silenziosa attraverso i quattro piani della casa. La donna fece accomodare il dottore nell’ampio salone d’ingresso, il cui unico arredo era una scultura di vetro: una delicata fanciulla con le braccia incrociate sul grembo, la schiena e il collo un po’ curvati in avanti, la testa inclinata di lato e una lunga coda di capelli che le sfiorava le ginocchia, seduta al centro di una lastra di cristallo, sotto cui si vedeva scorrere il fiume. Sospinta da un sistema ingegnoso, l’acqua saliva all’interno della scultura, creando un vortice perpetuo.

L’ascensore risalì al terzo piano.

Fornasier era pallido, il male stava affilando le unghie del dolore.

«Mi dica solo quanto mi resta, dottor Gualtieri».

«Le ho portato un farmaco più efficace. Non posso fare altro» gli rispose.

Teresa si voltò: le finestre e la porta sbarrata della bottega erano due occhi scuri e una bocca muta, contro cui la pioggia bussava inutilmente.

Finita la visita, la donna riaccompagnò il medico nel salone a piano terra.

«Se vuole, posso fare un altro tentativo per convincerlo al ricovero» le disse prima di uscire.

«La ringrazio, ma sarebbe inutile. Vuole restare qui».

La mattina seguente il cielo era luminoso, nell’aria si respirava ancora l’odore acre dell’acqua piovana, le campane del Duomo di San Nicolò suonavano a festa, la gente ritornava a riempire di voci e colori le strade deserte della notte.

Era la Domenica delle Palme. Nino arrivò in centro con i suoi genitori e i fratelli.

«Un giorno mi comprerò quella casa e sposerò Elisa!» esclamò, quando giunsero al Ponte della Vittoria. Si appoggiò alla ringhiera, con il braccio proteso verso un futuro ambizioso.

I fratelli l’avevano schernito. Il più grande gli spettinò il ciuffo di capelli con una carezza. «Ma cosa vuoi comprare … quella catapecchia in rovina? E poi, dove li trovi i soldi?».

«Sta sempre a sognare ad occhi aperti questo qua!» aggiunse l’altro ridendo.

«Lasciatelo stare, che i sogni non costano nulla» disse la madre, mettendo fine alla discussione. Poi proseguirono in silenzio fino alla chiesa.

Il signor Fornasier si risvegliò con un ronzio nelle orecchie, in balia di una violenta vertigine. La luce intensa del sole si rifletteva sulla vetrata, le campane del Duomo risuonavano nell’aria, e una moltitudine di persone usciva dalla chiesa con i ramoscelli di ulivo benedetti.

«Teresa, hanno suonato alla porta. È Nino!».

Nino era arrivato prima degli altri, rimasti a casa intorno al dolce della domenica. «Ci vediamo dopo dal nonno!» aveva esclamato, già in sella alla bici. Le burle con cui i due fratelli maggiori avevano deriso i suoi sogni, lo avevano soltanto spronato a escogitare un modo per realizzarli più in fretta. Perciò aveva rimuginato tutta la mattinata: in chiesa durante la messa, a tavola durante il pranzo, e a un tratto un’idea l’aveva folgorato.

La casa del nonno aveva un piccolo orto sul retro, dove l’anziano uomo coltivava qualche verdura. Nino corse a rovistare tra il mucchio di ferraglie accatastate in un capanno di legno, e infine, dentro un secchio arrugginito, trovò la sua folgorante idea: una palla di ferro bucherellata.


Il lunedì chiese a mastro Zorzet il permesso di uscire prima, e a mezzogiorno era già sulla strada per Treviso. Davanti a sé aveva quaranta chilometri di pedalate e una meta precisa.

Teresa portò a Fornasier le medicine e una tazza di caffè, che lui gustò a piccoli sorsi, con lo sguardo perso sulla superficie luccicante del fiume. «Dove sarà andato Nino?» pensò.

Arrivato a Treviso, Nino trovò subito il negozio che cercava. Il nonno gli aveva spiegato i trucchi per una buona tostatura. «Ma la cosa più importante» aveva detto, «è affidarsi al naso e alle orecchie per sentire il giusto punto di cottura dei chicchi».

Tornò a Sacile con dieci chili di caffè e ottanta chilometri nelle gambe, ma non perse tempo a mettere in pratica i preziosi consigli. Con i risparmi si era comprato un braciere, l’aveva montato in un ripostiglio dietro casa.

Le prime tostature furono esperimenti. Annusava il profumo che si diffondeva dalla palla di ferro sulla brace, ascoltava con attenzione il primo crepitio dei chicchi, e lo scoppiettio successivo, che era il più importante per capire quando toglierli dal fuoco. Tutte le sere si rintanava nello stanzino, tostava i granelli, li versava dentro un setaccio, preparava i pacchetti. Il giorno dopo, finito il lavoro di saldatura, andava a venderli a bar e trattorie, e il sabato pedalava fino a Treviso per comprare altro caffè.

Teresa prese la tazzina dalle mani di Luciano Fornasier e lo aiutò a sdraiarsi.

«Lo sa che Nino ha preso un negozio in affitto?» domandò l’uomo.

La donna gli fece cenno di sì. Sapeva della merceria in fondo alla strada, e sapeva che Nino era riuscito ad affittare il piccolo negozio, impegnandosi a vendere la merce rimasta in cambio di una pigione ribassata. Aveva anche comprato una macchina tostatrice usata. L’aveva fatta installare nel magazzino sul retro, mentre il piccolo negozio attiguo, con il vecchio bancone da merceria, divenne un piacevole ritrovo per degustare caffè pregiati dal mondo. Per le antiche vie del centro si diffondeva un aroma inebriante, che attirava sempre nuovi clienti, oltre a quelli affezionati che lo conoscevano dai tempi delle consegne in bicicletta.

Con la bocca impastata dai medicinali, Fornasier farfugliò poche parole: «Nino è tornato alla bottega».

Mastro Zorzet si tolse i guanti da lavoro e gli andò incontro con un sorriso.

«Che piacere rivederti! So che hai lasciato il vecchio negozio e hai aperto una nuova torrefazione, ma non ho ancora avuto il tempo di passare a trovarti».  

«Mi farebbe piacere se domenica venisse alla degustazione. Offrirò a tutti un pacchetto di caffè. Ma la notizia è che mi sposo, e lei è invitato, maestro!».

«Ti ringrazio, Nino!  E dove andrete ad abitare?».

«Per un po’ staremo dai miei, ma prima o poi riuscirò a comprarla quella casa».

«Sono contento per te, e per Elisa!» disse Zorzet con una festosa stretta di mano.

La domenica, prima dell’apertura, Elisa era andata ad aiutare Nino a preparare le tazzine, a sistemare i barattoli di caffè, a dare gli ultimi ritocchi. Lui la guardava affascinato: bellissima, nel suo vestito a fiori verde-azzurro, come i suoi occhi, come l’acqua del suo amato fiume, e lunghi capelli legati con un fiocco. Un pensiero fulmineo lo distolse da quella visione: «No! Ho dimenticato a casa i sacchetti per il caffè!».

«Vado a prenderli io!» esclamò la ragazza, e in un attimo fuggì via. Percorse un lungo tratto di strada verso l’ospedale, quindi decise di abbreviare il tragitto e proseguire su un sentiero che costeggiava il fiume, fino alla Pontebbana. Camminava sull’erba fresca e sdrucciolosa, a passi veloci e leggeri. Se qualcuno l’avesse notata, avrebbe potuto giurare di aver visto una fata scivolare sul prato.

Il fiume la restituì due giorni più tardi, a valle della ferrovia. Nino avrebbe voluto annegare con lei. E in fondo era stato così.

Nonostante tutto, il vecchio edificio pericolante era rimasto là, senza crollare mai, e per più di trent’anni lo aveva atteso paziente, in punta di piedi, quasi temesse di spezzare quell’aura di silenzio che sembrava proteggere il sogno di un ragazzo dallo scorrere del tempo.

Nel pomeriggio Luciano Fornasier si svegliò con la febbre alta, il volto scavato come una roccia nell’acqua. Il dottore arrivò poco dopo la telefonata di Teresa.

«Ha chiesto di essere portato di sotto» gli disse la donna.

Adagiarono l’uomo sulla sedia a rotelle e lo accompagnarono nell’atrio.

Sotto lo sguardo sgomento di Teresa, Fornasier lasciò che il suo corpo stremato scivolasse sulla lastra trasparente, accanto alla fanciulla di vetro.

«Lasciatemi qui da solo con Elisa» sussurrò.

«Come desidera, signor Nino».

Una leggera pioggia primaverile iniziava a picchiettare sulla finestra. Da sotto il ponte sbucarono quattro anatre bianche, passarono davanti alla casa di Luciano Fornasier, scivolando placide sull’acqua, una accanto all’altra.

Nino si fermò. Aspettò che si allontanassero. E mentre guardava la vecchia bottega abbandonata sull’altra sponda, il campanile batteva le cinque dentro la sfuggente cornice del crepuscolo, il profilo delle case si faceva più scuro e Sacile si preparava ad accogliere la sera.