INFERNO - CANTO  V

(Cerchio II - Minosse - i lussuriosi - Paolo e Francesca)

      Dante scende così nel secondo cerchio dell’Inferno. All’ingresso si trova Minosse, in funzione di giudice che assegna la pena avvolgendo la coda al suo corpo demoniaco. Nell’oscurità più totale risuonano gemiti e lamenti misti a bestemmie e imprecazioni: in questo luogo sono puniti i peccatori di lussuria i quali, avendo permesso ai sensi, nella vita terrena, di sconvolgere la ragione, adesso, per contrappasso, sono eternamente sballottati in tutte le direzioni da una bufera incessante.

      Tra quei dannati Virgilio indica a Dante, nominandole ad una ad una, più di un migliaio di ombre: Semiramide, regina degli Assiri dal 1356 al 1314 a. C., Didone, regina di Cartagine abbandonata da Enea, Cleopatra, regina d’Egitto, Elena, causa della guerra di Troia, Achille, che si innamorò di Polissena, sorella di Paride il quale (come riferisce Ovidio nelle Metamorfosi) lo uccise a tradimento, Tristano, che fu ucciso dallo zio, il re di Cornovaglia, il quale lo punì così del tradimento con sua moglie Isotta.

      Fra tutte spiccano però due anime che stanno sempre insieme. A queste Dante, incoraggiato da Virgilio, si rivolge per pregarle di venire a parlare con loro.

      Paolo e Francesca accolgono prontamente l’invito, si avvicinano e, mentre l’uno piange, l’altra racconta la loro tragica storia d’amore troncata sul nascere dal marito di lei, Gianciotto Malatesta , signore di Rimini e fratello di Paolo: la sua anima è attesa nella Caina, il luogo dei traditori dei parenti, in fondo all’Inferno.

Siede la terra dove nata fui

su la marina dove 'l Po discende

per aver pace co' seguaci sui.

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,

prese costui de la bella persona

che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:

Caina attende chi a vita ci spense».

    Francesca poi, su richiesta di Dante, si sofferma a raccontare l’origine della loro passione, piangendo in modo così struggente che Dante sviene per la commozione.


L’AMORE

Il tema fondamentale del quinto canto è la storia d’amore e di morte di Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, la cui figura poetica è stata magistralmente analizzata da Francesco De Sanctis in uno dei suoi insuperabili saggi critici.

  Dal punto di vista filosofico il tema dell’amore è uno dei più antichi e affascinanti.

  Mentre nel linguaggio comune il termine “amore” assume molti significati, che spesso contrastano tra di loro, nel pensiero greco antico l’Amore era considerato come una forza alla base della vita, capace di imprimere il movimento a tutte le cose e mantenerle unite. Fu Empedocle il primo a ritenere l’Amore come la forza cosmica che tiene uniti i quattro elementi (acqua, aria, terra, fuoco), mentre l’Odio o Discordia tende a separarle.

  Ma la prima analisi approfondita dell’amore la troviamo nel “Simposio”, il dialogo con cui Platone definisce, per bocca di Socrate, l’amore come desiderio di bellezza che, attraverso la considerazione del bello che si trova nelle cose finite, arriva a considerare il bello in sé, l’idea della bellezza che riassume tutte le forme possibili di bellezza.

  Dunque l’amore è il desiderio di possedere per sempre il bene e la felicità che si identificano con la bellezza eterna, la quale non nasce e non muore: la bellezza divina nell’unità della sua forma.

  Aristotele, pur trattando l’amore come sentimento tipico dell’uomo in quanto composto di corpo e di anima, qualifica Dio come primo motore immobile e dunque come Amore che muove, non mosso, tutte le cose come l’amato attira l’amante, essendo oggetto ultimo dell’amore e appagamento finale del desiderio dell’uomo e di tutto il Creato.

  Con il Neoplatonismo l’amore è considerato una tappa intermedia nel processo di ascesi dell’uomo verso Dio.

  Il Cristianesimo rivoluzionò il concetto dell’amore, anche dal punto di vista filosofico, con il nuovo comandamento di amare il prossimo, secondo solo a quello di amare Dio come se stessi. Sant’Agostino unificò i due comandamenti in un concetto unico perché “non si può amare l’amore se non si ama chi ama”, cioè Dio, fonte e personificazione dell’Amore. La linea agostiniana (cioè l’Agostinismo) è presente nello sviluppo di tutta la Scolastica, insieme alla ripresa della concezione aristotelica espressa nel trattato “Sull’amicizia”; quest’ultima costituisce la base della caratterizzazione dell’amore cristiano effettuata da San Tommaso, il quale distingue un amore naturale (inclinazione presente in tutti gli esseri creati) e un amore spirituale, più alto e più perfetto del primo. Questo secondo tipo di amore si esprime nella virtù e nella carità, che viene definita da San Tommaso “l’amicizia dell’uomo verso Dio”, perché l’amicizia nel senso aristotelico è l’amore congiunto con la benevolenza, cioè quella forma di bene che vuole l’amore dell’amato e non mira all’appropriazione di esso, come si verifica invece nella concupiscenza.


L’ATTRAZIONE  DELLA  PASSIONE

  Più che una storia d’amore la vicenda di Paolo e Francesca può essere definita una tragedia causata dalla passione, cioè da quel sentimento che assorbe interamente tutta la personalità dell’individuo umano quando lascia tacere la voce della ragione, la quale mette in guardia sulle possibili e tragiche conseguenze negative.

  Dante ha ben presente la distinzione tra amore e passione, tra desiderio e concupiscenza, tra fantasia e lussuria, così come distingue vari gradi nell’azione della passione. Lo dimostra il fatto che prima di trattare la delicata storia d’amore, sia pure passionale e peccaminosa, di Paolo e Francesca, passa in rassegna una serie di personaggi immortalati dalla poesia per la loro lussuria o per i loro sentimenti peccaminosi: è come se Dante volesse presentare una sorta di galleria di esempi negativi, che possano mettere in guardia l’uomo dalle micidiali conseguenze a cui porta irrimediabilmente la rottura dei vincoli di natura morale.

  Semiramide fu infatti la regina che, per evitare ogni forma di riprovazione che potesse suscitare la sua condotta morale sfrenata, mirante alla soddisfazione di qualunque voglia, fece diventare legale, cioè ammessa per legge, ogni forma di lussuria.

  Didone è, nell’Eneide di Virgilio, la regina di Cartagine che, avendo rotto il giuramento di fedeltà fatto alle ceneri del marito Sicheo, divenne l’amante di Enea e poi si uccise dopo che fu da questi abbandonata.

  Cleopatra fu la regina d’Egitto che ridusse l’amore ad esercizio di seduzione, prima nei confronti di Cesare e poi di Antonio, causando anche una guerra civile.

  La vicenda di Elena, che tradì il marito Menelao re di Sparta per fuggire con il principe troiano Paride, fu l’origine di devastazioni, rovine e lutti, narrati nell’Iliade di Omero.

  Achille è l’incarnazione dell’eroe invincibile che si fa vincere dalla passione amorosa.

  E infine Tristano è il cavaliere della Tavola Rotonda (del ciclo di Re Artù) che si abbandona al sogno, presto troncato di un amore impossibile.



CANTO III

(Spiaggia dell’Antipurgatorio – negligenti a pentirsi – scomunicati – Manfredi – ore 6 e 30 antimeridiane della domenica di Pasqua)



Avvegna che la subitanea fuga

disperdesse color per la campagna,

rivolti al monte ove ragion ne fruga,

i’ mi ristrinsi a la fida compagna:

e come sare’ io sanza lui corso?

Chi m’avria tratto su per la montagna?


    Mentre le anime si disperdono, Dante, temendo di rimanere solo (perché pur avendo il sole alle spalle non vede accanto a sé l’ombra della sua guida) si rigira accostandosi a Virgilio che aveva rallentato il passo turbato dal rimorso. Vedendo l’allievo impaurito,il maestro lo rincuora,gli ricorda che il proprio corpo è sepolto a Napoli,nell’altro emisfero,(per questo la sua figura non proietta ombra) e poi,prevenendo una sua domanda,gli spiega che le anime,pur essendo puro spirito,avvertono la sofferenza per la misteriosa virtù della potenza divina le cui vie sono sconosciute anche ai più sapienti del mondo,altrimenti non sarebbe stato necessario il parto della Vergine Maria.


Noi divenimmo intanto a piè del monte;

quivi trovammo la roccia sì erta,

che ‘ndarno vi sarien le gambe pronte.


    Intanto i due poeti giungono alle falde della montagna,che si presenta subito estremamente irta e scoscesa. Vedendo una schiera di anime che procedono in maniera lentissima verso la loro direzione,Dante le indica alla sua guida che sta meditando a capo chino sul da farsi. Virgilio allora decide di andare loro incontro,rassicurando il suo discepolo. Non appena i due pellegrini giungono a poca distanza da quegli spiriti i quali all’improvviso si sono arrestati,come colti da un dubbio,Virgilio,apostrofandoli in modo benevolo,chiede loro se conoscano la via per accedere al monte.

    Quelli della prima schiera si avviano allora verso i due poeti;poi,accorgendosi che Dante è vivo,si arrestano all’improvviso,costringendo tutti quanti gli altri a fermarsi. Quindi,dopo che Virgilio ha spiegato il motivo del viaggio di Dante,facendo cenno con i dorsi delle mani,invitano i due poeti a ritornare indietro.

    Ma uno di essi si rivolge a Dante.


E un di loro incominciò:”Chiunque

tu se’,così andando volgi ‘l viso:

pon mente se di là mi vedesti unque”.

Io mi volsi ver lui e guardail fiso:

biondo era e bello e di gentile aspetto,

ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.


    Ė Manfredi,figlio naturale di Federico II e nipote di Costanza d’Altavilla. Costui,scoprendo il petto e mostrando le ferite,racconta a Dante come si sia pentito in punto di morte e come la misericordia infinita di Dio abbia perdonato i suoi orribili peccati, nonostante la scomunica.


Orribil furon li peccati miei;

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ‘l pastor di Cosenza che a la caccia

di me fu messo per Clemente allora,

avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora

in co del ponte presso a Benevento,

sotto la guardia de la grave mora.


    Se il vescovo di Cosenza, inviato dal papa Clemente IV, avesse compreso questo aspetto della bontà divina, le sue ossa si troverebbero ancora sepolte sotto l’estremità del ponte presso Benevento da dove furono dissotterrate e disperse con i ceri capovolti e spenti (come si usava fare per eretici e scomunicati).

    Manfredi infine prega Dante di riferire alla figlia Costanza come lui si trovi, salvo, in Purgatorio perché anche gli scomunicati, sebbene debbano trascorrere nell’Antipurgatorio trenta volte il tempo che impiegarono a pentirsi,possono abbreviare tale periodo per mezzo delle preghiere dei vivi in grazia di Dio.



Il  Tempo


“O ben finiti,o già spiriti eletti”,

Virgilio incominciò,”per quella pace

ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,

ditene dove la montagna giace,

sí che possibil sia l’andare in suso;

ché perder tempo a chi più sa più spiace”.


    Questa sentenza di Dante che, come tante altre della Commedia, è diventata proverbiale, afferma che sono soprattutto coloro che conoscono il valore del tempo a dispiacersi delle perdite di tempo inutili.

    Per comprendere il valore del tempo non è certo indispensabile conoscere tutte le concezioni filosofiche relative al tempo ma certamente può essere d’aiuto averne almeno un’idea,sia pure approssimativa.

    Nella storia del pensiero filosofico l’idea più antica è quella dei Pitagorici i quali,definendo il tempo come “la sfera che abbraccia tutti”, danno vita alla concezione che intende il tempo come ordine misurabile del movimento, secondo la definizione aristotelica per cui il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e il poi”.

All’interno di questa concezione si fronteggiano due visioni. La prima,quella ciclica, secondo cui la successione temporale sarebbe un eterno ritorno dell’identico, fu sostenuta da molti filosofi greci arcaici. L’altra invece,quella lineare, inaugurata dalla tradizione ebraico-cristiana (per la quale Gesù è il Dio fatto uomo per la salvezza di tutti) segna la linea di demarcazione tra un prima e un poi nella storia dell’umanità.

La seconda concezione,intendendo il tempo come movimento intuíto,porta inevitabilmente con sé la riduzione del tempo stesso alla coscienza. Per la verità la definizione del tempo come “intuizione del movimento o divenire intuíto” è di Hegel,nell’˝Enciclopedia delle Scienze Filosofiche in compendio˝, ai primi del Milleottocento. Ma fu Agostino che, basandosi sull’affermazione di Plotino (v.cap.IV, La filosofica famiglia, del mio volume precedente, ˝In viaggio con Dante alla scoperta del senso della vita˝) che il tempo non esiste fuori dell’anima, definisce il tempo come distensione dell’anima.

Quando Heidegger affermò che l’ultima parola sul tempo l’ha detta Agostino,si riferiva al celebre passo delle “Confessioni” in cui il tempo viene definito come attenzione dell’anima rivolta al presente,ricordo che l’anima conserva del passato,e attesa dell’anima che si proietta verso il futuro. Insomma non esisterebbero tre tempi (presente,passato e futuro) ma un solo tempo,il presente:precisamente il presente del presente,il presente del passato e il presente del futuro.

Seguendo questa linea di pensiero poi si arriva a Henri Bergson (1859-1941) e a Edmund Husserl (1859-1938).

La terza concezione, che intende il tempo come struttura della possibilità, è quella illustrata da Martin Heidegger in “Essere e Tempo”(1927), la cui tesi centrale intende l’uomo (il Dasein, l’esserci) come un essere gettato nel mondo e inserito nell’orizzonte della temporalità.

Nel linguaggio comune si fa riferimento alla prima e soprattutto alla seconda concezione perché tutti intuiscono che una cosa è il tempo cronologico,quello scandito dalla strumentazione tecnica sempre più precisa, altra cosa è invece quello interiore dell’anima in cui i ricordi di una vita si accalcano in un solo beve istante e invece un momento di pericolo o di angoscia può sembrare un secolo.

Così il viaggio di Dante dalla selva oscura al Paradiso dura circa otto giorni (dalla notte del giovedì santo alla mezzanotte del giovedì di Pasqua); ma la notte trascorsa con “tanta pièta” dovette sembrargli certamente un’eternità.


La coscienza morale

    Il significato filosofico del termine coscienza è molto complesso e rimanda ad una certa familiarità con la storia della filosofia da Sant’Agostino a San Tommaso,da Descartes (italianizzato in Cartesio) a Kant ed Hegel, da Bergson alla fenomenologia di E. Husserl. Quindi a Jaspers e Sartre, per l’indirizzo spiritualistico della fenomenologia che si rifa all’analisi cartesiana, e poi ad Hartmann e Heidegger per l’indirizzo oggettivistico che intende la coscienza come “intenzionalità” (concetto utilizzato da Franz Brentano per indicare il riferirsi o il rapportarsi dell’atto di coscienza a qualcosa di diverso,ad altro).

    Semplificando,per la filosofia la coscienza è la facoltà (dello spirito) mediante la quale abbiamo consapevolezza immediata e cognizione piena di noi,dei nostri atti interiori (pensieri,intenzioni,sentimenti) e dei nostri stati psichici attraverso cui ci conosciamo e giudichiamo. Non si tratta della semplice presa d’atto di un pensiero o di uno stato d’animo ma del raccogliersi in se stessi e nella propria interiorità per raggiungere verità profonde relative alla realtà esterna e alla propria personalità per conoscersi e giudicarsi.

    Insomma si tratta di una facoltà in cui si intrecciano l’aspetto teoretico (la conoscenza) e l’aspetto morale (il giudizio). Per questo motivo nel linguaggio comune la coscienza assume diversi significati:

  1. consapevolezza, condizione mentale di colui che è sicuro di sapere o di chi è perfettamente convinto di dover agire in un certo modo;

  2. voce interiore,che richiama al senso di ciò che è giusto o non è giusto,di ciò che è bene e di ciò che è male;

  3. senso di responsabilità, capacità di mantenere il controllo di sé e di agire in modo equilibrato.

Ed è proprio a quest’ultimo significato,che ha più diretta connessione con la moralità,che Dante si riferisce quando,dopo il rimprovero di Catone, esclama nei riguardi di Virgilio:

El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!


Io non credo che Dante,se vivesse in questi nostri tempi grigi, agitati e torbidi,potrebbe rivolgere questo complimento a molti italiani,specialmente a quelli di cui la cronaca quotidiana si interessa in ragione della loro funzione o del loro ufficio,per la carica istituzionale che ricoprono.

    Sono convinto,anche se spero di sbagliarmi,che molti non riescano a provare neanche rimorso per lo sconquasso e,soprattutto,per il cattivo esempio che le loro parole,i loro gesti e i loro comportamenti propongono alle giovani generazioni e alla società in generale.

    E il peggio è, purtroppo,che non si tratta soltanto di immoralità,cioè di azioni contrarie alla morale,ma di amoralità,cioè di ignoranza volontaria e disprezzo più assoluto della regola,fondamentale per una democrazia,che impone alla persona pubblica la coerenza tra ciò che dice e ciò che fa e la più cristallina trasparenza delle proprie azioni.

©Vincenzo Dell’Utri





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Vincenzo Dell’Utri: Nato il 5 marzo del 1948 a Caltanissetta, laureato in Filosofia a Palermo il 28 novembre del 1970 (tesi su I. Kant), ha insegnato materie letterarie nelle scuole medie e superiori, quindi Filosofia e Storia prima al Liceo Scientifico “Torricelli” di Maniago (dal 1996 al 1999) e poi al Liceo Scientifico dell’istituto“G. A. Pujati” di Sacile. Abilitato in materie letterarie, in Filosofia e Storia, ha lasciato l’insegnamento istituzionale dal primo settembre 2005, per dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi preferiti:Dante, La Bibbia, la filosofia morale e la storia, la Costituzione italiana. Ha pubblicato, nel giugno del 2008, il saggio “In viaggio con Dante alla scoperta del senso della vita” – L’inferno. Nel giugno 2011 ha fatto seguito un secondo saggio dedicato al Purgatorio:  “In viaggio con Dante alla ricerca di sé stessi” – Il Purgatorio. E’ in preparazione il terzo, dedicato al Paradiso.
I volumi si propongono lo scopo di avviare anche lettori che non possiedono grande dimestichezza con gli studi classici alla lettura, ed eventualmente allo studio della Divina Commedia, della filosofia e della morale. Sono saggi adatti a tutti per la semplicità di impostazione e di esposizione, il linguaggio chiaro ed essenziale, l’eliminazione delle note a piè di pagina. Vengono proposti due canti a titolo esemplificativo, uno per l’Inferno ed uno per il Purgatorio.